Apparenza politica e sostanza economica

La dottrina delle lotte delle classi è spesso ridotta al compito che il marxismo pone alla classe sfruttata di opporre alla classe sfruttatrice il proprio interesse. Questa riduzione facilita il compito ideologico di negare alla classe sfruttata una propria politica ed in questo senso è adoperata nei periodi, come quello attuale, in cui i rapporti di forza sono tali da impedire manifestazioni di forza che rendano "visibile" una qualsiasi reazione collettiva della classe sfruttata.

In realtà il marxismo però interpreta lo sviluppo storico come risultato della lotta delle classi ed in queste include anche le frazioni, e le classi medesime giungendo le loro lotte alla guerra, alla lotta di uno stato contro l'altro.

In questo preciso senso la negazione che la classe operaia possa giungere alla lotta di classe, alla lotta contro lo Stato che la domina, è una necessità ideologica borghese, un momento di quella forza con cui la borghesia opprime e domina il proletariato.

E' questo rapporto di forza sociale a rendere "oggettivi" i movimenti, i cui nodi di crisi vengono sciolti "economicamente" sempre a svantaggio della classe sfruttata e sempre a vantaggio di quella sfruttatrice. Ciò non significa affatto che un tale rapporto di forza non debba essere scientificamente compreso e valutato. Significa soltanto comprendere la natura storica del sistema capitalistico le cui leggi si attuano, si impongono sugli uomini come leggi di natura, come fulmini o temporali, ma non lo sono affatto.

Il marxismo è scienza perché permette, di comprendere le leggi economiche che regolano i movimenti e gli interessi, della borghesia e della società che domina. Solo sulla base si tale comprensione è possibile al proletariato un movimento collettivo, un obbiettivo comune e proprio in questo senso che il marxismo è "guida per l'azione". Solo in questo senso è strumento di comprensione che l'apparente indipendenza della politica è essa stessa mistificazione, falsa rappresentazione di lotte economiche i cui interessi limitati e ristretti ad alcune oligarchie non potrebbero mai imporsi socialmente senza il concorso inconsapevole, anche se interessato, di più popolose frazioni e figure della borghesia e del proletariato stesso.

Del resto questa è la forza della politica borghese, la base materiale su cui poggia il suo dominio, non la sua mutevole, contraddittoria ideologia.

La vicenda Telecom chiusasi con il controllo della società assunto dalla cordata Colaninno è da questo punto di vista esemplare.

Gli scalatori hanno vinto col sostanziale appoggio di Mediobanca strappando il controllo della società ai "privatizzatori" della Telecom tra i quali, di fatto, con la nomina dell'amministratore delegato prima Rossignolo poi Bernabé, la Fiat era l'effettivo controllore.

Ormai da almeno un anno i divergenti interessi Mediobanca - Fiat erano divenuti espliciti non senza ripercussioni sulla "politica". Lo stesso governo Prodi, il cosiddetto "Ulivo", era stato ampiamente appoggiato dal gruppo Fiat e quindi da quasi tutta la stampa italiana, dalla Rai e da tutta una schiera di servi non retribuiti grazie al quale lo stesso "Avvocato" gode fama di "Grande imprenditore". R. Prodi, ex presidente IRI, non aveva bisogno di presentazioni per la famiglia Agnelli. Sotto la sua presidenza IRI la famiglia assume con poca spesa il controllo dell'Alfa Romeo; vende, incassando 300 miliardi, l'indebitata siderurgica Teksid all'IRI; fallisce per un soffio, per l'opposizione di quel delinquente di Craxi, il controllo dell'Italtel (IRI) tramite la costituenda Telit. Eletto presidente del consiglio R. Prodi, contraddicendo il proprio programma elettorale ma non gli interessi che lo sorreggevano, detassa il settore auto con la legge sulla "rottamazione". L'Ifil, sempre della famiglia Agnelli, dalla controllata lentezza della privatizzazione Telecom, inoltre, aveva ricevuto col solo acquisto dello 0,6% delle azioni, per una spesa di 350 miliardi di lire, il controllo di circa 60.000 miliardi di capitale.

Secondo Nerio Nesi, "comunista" Cossuttiano, l'ex presidente dell'IRI avrebbe inoltre "regalato" piuttosto che privatizzato, le ex Bin (Banche d'importanza nazionale) a Mediobanca. Con un operazione definita "scambio di cartoline", Mediobanca era entrata in possesso di quote delle ex Bin, Comit, Credit e Banco di Roma (poi divenuta Banca di Roma), in cambio ogni ex Bin aveva ricevuto una quota di Mediobanca.

Ma il neonato polo finanziario San Paolo di Torino - IMI, in cui la Fiat è presente, lanciava un OPA (offerta pubblica d'acquisto) sulla Banca di Roma mentre il Credit, anziché lasciarsi attrarre da Mediobanca entrava in un accordo con Unicredito.

Il processo di concentrazione finanziario avviato con l'introduzione dell'euro e con la liberalizzazione del mercato azionario, di cui un nodo è stata la legge draghi, costringendo tutte le società a rivedere i propri patti di sindacato e costringendole a concentrazioni difensive mettevano lo stesso controllo di Mediobanca alla mercé del mercato. L'OPA IMI - San Paolo di Torino sulla Banca di Roma mirava proprio a questo scopo nel tentativo di impedire un'accordo Comit - Banca di Roma progettato da Cuccia per controllare le quote Mediobanca in loro possesso. Prodi dichiarava pubblicamente il proprio gradimento all'OPA IMI. Ma sullo sfondo diveniva sempre più chiara la campagna italiana di centri finanziari europei.

L'Allianz tedesca, tramite RAS, tentava di aumentare la propria quota Comit così Deutsche Bank azionista Fiat. Puntando alle difese di Mediobanca, con tutto il corollario di partecipazioni che le fanno capo, avrebbero messo in discussione tutta la cosiddetta "Galassia del Nord" e soprattutto, con l'appoggio della Lazard, avrebbero messo mano sulle Generali, unico istituto assicurativo italiano di livello internazionale. Ciò determinava l'intervento della Banca d'Italia, il cui direttore con un intervento nettamente protezionista negava l'autorizzazione all'aumento della quota RAS in Comit. Mediobanca poteva così rastrellare azioni Comit ed imporre un nuovo consiglio d'amministrazione sicuro con la nomina di Lucchini ad amministratore delegato. Mediobanca avvierà così un tragitto che la porterà all'accordo Comit - Banca Intesa creando un forte centro bancario nel dinamico nord - est italiano.

Contemporaneamente lo scoglio "Rifondazione" diventava insormontabile sino a provocarne la caduta. Se in altre occasioni Prodi era riuscito a concedere a Rifondazione che si discutesse di riduzione dell'orario di lavoro a 35 ore, pur di non interrompere la sua "opera di governo", in questo frangente non ricevendo margini di trattativa dai suoi ministeri economici, dalla "scesa in campo" di solo apparentemente bizzarro Cossiga, era costretto alla bagarre parlamentare. Il più sorpreso di tutti era proprio Bertinotti di Rifondazione, inconsapevole pretesto di battaglie di cui quelle parlamentari erano solo "le comiche".

La nascita del governo D'Alema ridava fiato alle difese di Mediobanca. Ricondotta Comit sotto controllo, anche grazie agli alleati Commerzbank e Paribas, Mediobanca imponeva un suo uomo anche alle Generali togliendolo alla Lazard. Un altro punto a suo favore Mediobanca lo metteva a segno con l'OPA Colaninno sulla Telecom. Nella dichiarata neutralità del governo D'Alema, che rinunciava all'utilizzo delle azioni ancora in possesso del ministero del Tesoro, la cosiddetta finanza rossa, Unipol, entrava nella cordata appoggiata da Mediobanca in sintonia con gruppi bresciani, fra cui Gnutti (che uscirà dalla Lega di Bossi dopo le europee) e tra le banche l'Antonveneta oltre a Banca di Roma, Monte dei Paschi e Comit. Un intreccio di finanza rossa e di Padania agganciati ad un pilastro finanziario come Mediobanca. Anche la Mediaset di Berlusconi, nonostante sia parte di un'alleanza avversa in campo telefonico, sentiva il bisogno di dichiarare la propria disponibilità ad investire in Telecom.

Risultato un'alleanza finanziaria inedita, non priva d'influenza sulle elezioni europee ed amministrative, il cui risultato non può essere compreso senza agganci alle lotte finanziarie in corso.

La singolare spaccatura dei DS a Bologna, per non parlare dell'ancor più singolare campagna del governo D'Alema per la riduzione delle pensioni in pieno ballottaggio elettorale, hanno ancor più ridotto le velleità che R. Prodi aveva di influenzare il governo con il suo neonato partito dei "Democratici", comunque azzopandogli la gamba "ulivista" nel DS.

Solo cadendo nell'illusione che una qualsiasi carica statale, figurarsi una di governo, tenga in un qualche conto la "volontà degli elettori" la politica appare incomprensibile.

Nonostante la necessaria schematizzazione ed incompletezza del nostro breve resoconto, questo rende conto di aspetti della lotta politica altrimenti chiari solo alla coscienza della borghesia.

Il marxismo nasce come critica, demistificazione, della politica borghese. E' l'unica arma che il proletariato ha se non vuol rimanere, anche in politica, "carne da cannone" di battaglie altrui.

luglio-agosto 1999 pubblicato su L'Internazionale (Livorno)