Paolo Casciola

 

LA PAGLIA DA CAPPELLO IN VAL DI PESA

E GLI SCIOPERI DELLE TRECCIAIOLE (1896-97)

 

La recensione che segue è apparsa originariamente, senza alcun titolo, sulle pagine della Rivista Storica dell’Anarchismo (Pisa), a. IX, n. 1 (17), gennaio-giugno 2002, pp. 132-134.

 

Alberto CIAMPI, La paglia da cappello in Val di Pesa, San Casciano in Val di Pesa, Centro Studi Storici della Valdipesa, 2001, pp. 154.

Pubblicato in concomitanza con un’interessante mostra sponsorizzata dal Comune di San Casciano in Val di Pesa, dalla locale Associazione Pro-Loco e dalla Banca del Chianti Fiorentino, questo volume di grande formato e riccamente illustrato documenta i vari aspetti tecnici e storico-economici di un’attività lavorativa ormai quasi completamente scomparsa. Realizzando il libro, e curando la mostra che gli ha fatto da pendant, l’autore ha portato a compimento un progetto che era stato originariamente concepito da Pier Carlo Masini (1923-1998): il materiale di base da cui Alberto Ciampi è partito era stato infatti pazientemente raccolto da Masini e, a poche settimane di distanza dalla sua scomparsa, erano stati proprio i figli di quest’ultimo, Silvia e Francesco, a consegnare a Ciampi una scatola di cartone contenente molte tessere – materiali di vario tipo pazientemente raccolti nel corso degli anni – di un mosaico ancora incompiuto.

Da questo passaggio del testimone era implicitamente scaturito l’impegno a ricercare non solo ulteriori elementi documentari, ma anche a raccogliere testimonianze orali e oggetti d’uso con l’obiettivo mettere in piedi un’iniziativa editoriale ed espositiva di alto profilo culturale. Al vecchio Masini tutto questo sarebbe sicuramente piaciuto. In lui c’era una sorta di "affetto personale" per il cappello di paglia di Firenze, dato che proprio grazie all’agiatezza della sua famiglia – derivante dall’attività commerciale svolta dal padre a Cerbaia e dintorni nel settore della paglia da cappello – egli aveva potuto frequentare l’università e laurearsi.

Addentrarsi nell’argomento del cappello di paglia di Firenze significa, in primo luogo, capire tutta la specificità di un’attività agricola – la coltivazione della paglia da cappello, appunto – che affonda forse le proprie origini addirittura nel XIV secolo e che si svilupperà ed estenderà successivamente, determinando mutamenti di estrema rilevanza nel territorio interessato, sia dal punto di vista colturale e tecnologico, sia a livello economico e sociale.

Alla storia e alle tecniche di lavorazione della paglia è consacrata la prima parte del volume, nella quale vengono ripercorse – attraverso una puntuale rassegna delle fonti bibliografiche – le varie tappe attraverso cui il cappello di paglia di Firenze passò, dalla produzione originaria prettamente artigianale dei secoli XVI e XVII, commercializzata esclusivamente a livello locale, ad un processo lavorativo più complesso che combinava la manifattura artigianale intermedia (il trattamento dei fili di paglia e la realizzazione delle trecce) con un’organizzazione di tipo industriale per quanto riguarda la realizzazione del prodotto finito, di fronte al quale si aprivano orizzonti di mercato via via sempre più vasti.

Il massimo sviluppo del settore, raggiunto nei secoli XVIII e XIX, sarà segnato anche da una considerevole estensione geografica della produzione agricola della materia prima, che arriverà a diffondersi su un territorio di vastissime proporzioni: dal contado fiorentino più immediatamente contiguo al capoluogo in direzione della piana del Bisenzio (Peretola, Brozzi, San Donnino, Campi Bisenzio, Signa), sul versante meridionale dell’Arno nella zona di Lastra a Signa e Malmantile e un po’ più a meridione, risalendo la vallata del torrente Pesa (Ginestra Fiorentina, San Vincenzo a Torri, Cerbaia, San Casciano, Mercatale), spingendosi poi lungo la direttrice Impruneta, Strada in Chianti e Greve, e allargandosi infine verso il Sestese, il Pratese, l’Empolese, il Pistoiese e la zona di Scandicci. Soggetta non soltanto alle contingenze dei "capricci della moda" ma anche ad una concorrenza italiana e straniera (con prodotti di qualità sicuramente inferiore ma più a buon mercato, provenienti soprattutto dal Giappone e dalla Cina, ma anche dalla confinante Svizzera), fattasi maggiormente agguerrita con l’invenzione della cucitrice meccanica che rendeva assai redditizia la fabbricazione di copricapo di paglia, la produzione del cappello di paglia di Firenze dovette per forza sottostare, a livello più strutturale, all’andamento generale dell’economia.

Fu proprio la crisi economica della fine del XIX secolo, combinata all’intensificarsi della concorrenza, ad assestare un colpo decisivo all’industria del cappello di paglia di Firenze, stroncandone il trend economico generalmente ascendente che durava ormai da oltre un secolo e mezzo, e che era stato interrotto soltanto da una seppur lunga congiuntura negativa a cavallo tra la Rivoluzione Francese e la Restaurazione. E com’era ovvio il padronato – in tutte le sue incarnazioni: dal grande proprietario terriero all’industriale fino ai "fattorini", una sorta di sensali o intermediari che partecipavano direttamente allo sfruttamento della forza lavoro sulla base di un sistema analogo al caporalato – cercò di scaricare i costi della crisi sull’anello più economicamente debole della catena, cioè sulle "trecciaiole", la gran massa delle lavoratrici sfruttate e sottopagate che realizzavano il manufatto di base: le trecce di fili di paglia che poi, dopo essere state cucite insieme e opportunamente modellate, creavano il prodotto finale.

Si trattava di svariate decine di migliaia di proletarie degli agglomerati urbani e delle campagne che, socialmente e sessualmente oppresse in quanto donne, venivano sfruttate in maniera davvero disumana ricevendo, in cambio di un lavoro di almeno dodici-tredici ore giornaliere, un compensi di pochi centesimi di lira. Alla metà di maggio del 1896 la minaccia padronale di assottigliare ulteriormente quel reddito da fame scatenò la loro rabbia. Le lavoratrici della paglia scesero allora in lotta dando avvio ad un possente movimento di scioperi che – sviluppandosi "a singhiozzo" nel tempo e "a macchia di leopardo" sul piano territoriale – sarebbe durato per quasi un anno e mezzo, raggiungendo livelli anche notevoli di consapevolezza politico-sindacale e di scontro diretto con le forze dell’ordine chiamate a difendere manu militari gli interessi e i privilegi degli sfruttatori.

Così, ad esempio, le trecciaiole scese in piazza a Brozzi – uno dei primi focolai del movimento – furono aggredite e picchiate dalle guardie di Pubblica Sicurezza. Episodi del genere, e anche più gravi, si ripeterono più volte nel corso degli scioperi, segnate a volte anche da risposte violente da parte delle lavoratrici, come quando le trecciaiole di Peretola presero a bastonate gli agenti inviati a sedare i disordini: "Contro gli agenti furono indirizzati epiteti ingiuriosi; alcuni furono percossi (…) furono ordinati squilli di tromba per intimare alla folla, che pareva disposta ad altri più gravi eccessi, di sciogliersi. Agli squilli è stato risposto con una accanita resistenza. I soldati hanno dovuto inastare la baionetta" (La Nazione, 20 maggio 1896). E anche se il movimento di lotta delle trecciaiole non fu represso nel sangue come era accaduto soltanto due anni prima con i moti della Lunigiana e con i Fasci Siciliani, durante gli scioperi non mancarono scontri fisici e arresti, e la repressione contro le lavoratrici della paglia venne comunque portata avanti in maniera piuttosto decisa dalle forze di Pubblica Sicurezza, dai Regi Carabinieri e dall’esercito, che arrivarono a sottoporre interi paesi allo stato d’assedio.

Ciampi mette in evidenza il carattere inizialmente spontaneo e autorganizzato della lotta ingaggiata dalle trecciaiole per ottenere le proprie rivendicazioni retributive e il ruolo di mediazione successivamente svolto dalla giovanissima Camera del Lavoro (CdL) fiorentina – che era stata creata poco più di tre anni prima, nel marzo 1893 – che, movendosi entro un’ottica social-riformista, cercò di evitare ogni ulteriore radicalizzazione dello scontro e di raggiungere una pace sociale che non scontentasse troppo né la Camera di Commercio padronale e lo stato, né le scioperanti che continuavano comunque la propria battaglia. Per rendere efficace la loro azione di freno rispetto al movimento di scioperi, la CdL e i socialisti capeggiati dall’On. Giuseppe Pescetti intrapresero un lavoro di inquadramento delle lavoratrici nell’ambito di cooperative la cui costituzione godette della piena approvazione delle autorità, dal momento che si trattava di "verticizzare" e ingabbiare il movimento, di sottrarlo all’influenza degli elementi più sovversivi e incontrollabili, di fornire al padronato un unico e più ragionevole interlocutore.

Tuttavia questo tentativo mal si adattava alla radicalità della lotta intrapresa alle trecciaiole, che sin dall’inizio avevano ricevuto il sostegno degli anarchici fiorentini e di altri "estremisti" rivoluzionari nient’affatto inclini al compromesso con gli sfruttatori. Come si può leggere in un volantino diffuso a Brozzi poco più di una settimana dopo l’avvio degli scioperi: "Operai ed operaie! Lo sciopero che avete intrapreso è il riscatto della vostra dignità. (…) Non vi fidate di chi vi raccomanda la calma, perché coloro vi incitano alla sottomissione. (…) Abbasso gli infami padroni! Viva la rivoluzione sociale!" E in effetti il ribellismo sociale delle lavoratrici della paglia in lotta si manifestò a più riprese, ad esempio nell’estate del 1897, quando le trecciaiole di Signa respinsero con decisione la mediazione normalizzatrice portata avanti da Pescetti e da un altro dirigente socialista, Pompeo Guidi, di concerto con la CdL fiorentina che, avendo ottenuto modesti aumenti retributivi dalla Camera di Commercio, intendeva lavorare con rinnovata energia per la "pacificazione degli animi" e, dunque, per porre fine al movimento. E va ricordato che proprio in questa ultima fase degli scioperi – la cui onda lunga si sarebbe definitivamente esaurita nell’ottobre del 1897 – le autorità fecero ricorso ad un uso ancor più massiccio dell’esercito in funzione repressiva e ad un intensificarsi dell’attività giudiziaria contro le sobillatrici e i sobillatori, veri o presunti, degli scioperi.

Il movimento di lotta delle trecciaiole sarebbe poi ripreso a distanza di anni, nel 1906 e nel 1911, con rivendicazioni analoghe ma con un numero largamente minore di adesioni e in un contesto di diffusione dell’associazionismo cooperativo tale da ridurre decisivamente la capacità di azione diretta che aveva caratterizzato gli scioperi del 1896-97. Tuttavia le trecciaiole continuarono ad occupare una posizione d’avanguardia in seno al movimento operaio nella provincia di Firenze e a prendere parte alle lotte proletarie anche al di fuori del proprio ambito lavorativo e sindacale specifico, a testimonianza di un livello di coscienza politica ormai definitivamente acquisito e sedimentato. Basti pensare al caso della trecciaiola Annina Menchelli, cinquantenne vedova e madre di una giovinetta, che durante i moti di Sesto Fiorentino del maggio 1898 contro il rincaro del prezzo del pane venne ferita a morte da una scarica di fucileria sparata dai soldati (v. Ilario Rosati, Pane e lavoro. I moti a Sesto Fiorentino 5 maggio 1898, Firenze, Giampiero Pagnini Editore, 1998, p. 46). Il tragico destino di questa coraggiosa combattente proletaria ben simboleggia lo spirito di abnegazione e l’irriducibile volontà di lotta delle tante e anonime lavoratrici della paglia di fine Ottocento – spirito di lotta contro lo stato borghese e i soprusi padronali, per la giustizia sociale e l’emancipazione di tutti gli sfruttati e gli oppressi.

Dopo un’ampia descrizione degli aspetti economici connessi alla fabbricazione del cappello di paglia di Firenze, il volume passa in esame il "mito" del cappello di paglia di Firenze, soprattutto nei suoi aspetti letterari. E nelle pagine conclusive si arricchisce di un apparato iconografico veramente ragguardevole.

Firenze, 11 marzo 2002 Paolo Casciola