Note di metodo nello studio della natura sociale dell'URSS (2)
Populisti e contadini nella Russia zarista



Nel 1875 Engels, sul Volksstat, polemizzando con un populista russo, di tendenze blanquiste, P. N. Tkaciov, precisa:

La proprietà comune dei contadini russi fu scoperta intorno al 1845 dal consigliere segreto prussiano Haxthausen e strombazzata come una vera e propria meraviglia, sebbene Haxthausen avrebbe potuto trovarne numerose sopravvivenze nella sua patria di origine, la Westfalia, e, come funzionario statale, avesse l'obbligo di conoscerle a fondo. Da lui Herzen, di nascita grande proprietario russo, seppe per la prima volta che i suoi contadini possedevano la terra in comune, e ne trasse motivo per raffigurare i contadini russi come i portatori del socialismo, i comunisti nati, di fronte all'Occidente europeo marcio e decrepito il cui destino era di assimilare il socialismo solo artificialmente e a prezzo di enormi fatiche. Da Herzen l'idea trasmigrò in Bakunin, e da Bakunin in Tkaciov.

Engels ricorda qui alcuni «padri» del populismo russo in tutte le sue sfumature ma soprattutto per la loro estraneità all'ambiente di cui si erano eretti a portavoce. La conoscenza della base sociale che pretendono di rappresentare è astratta, libresca perfino per l'ex-proprietario terriero Herzen. A ben vedere però la frase citata di Engels non è soltanto un epiteto, una messa alla berlina del populismo che pretende di indicare la via da seguire al movimento operaio occidentale. E' molto di più perché sottolinea la distanza sociale, un vero e proprio abisso, esistente tra populisti e contadini russi. Non si possono pensare per la Russia «asiatista» rapporti di rappresentanza, di espressione d'interessi, come quelli a cui ci ha abituato la società borghese.
E' doveroso sottolineare, e dovremo pur tornarci trattando della «nobiltà», come quest'abisso sociale separasse non solo populisti e contadini ma anche lo stesso zarismo da tutta la società russa e del resto, ce lo dice lo stesso Engels, anche i proprietari terrieri dai contadini. Né questo tipo di rapporto si limitava ai soli «padri» cui i populisti si riferivano, a cascata investiva tutti i populisti sino all'ultimo terrorista; F. Venturi nel suo "Il populismo russo" riporta un brano di autobiografico di Vera Figner:

Da noi non esisteva un parlamento, non c'era neppure da pensare al suffragio universale e ad elezioni e a deputati degli operai. Nell'antica Russia erano esistiti dei governi di popolo, quali li avevano descritti Kostomarov, c'erano gli arteli, di cui leggevamo nelle pagine di Flerovskij, esisteva l'obscina che conoscevamo attraverso Haxthausen, le opere di Herzen, Bakunin, Scapov, Jadrincev. Questa obscina era il prototipo e insieme il germe d'una giusta organizzazione futura della società ...

La stessa Vera Figner, come molti altri, era divenuta populista in Svizzera. Qui i populisti avevano incontrato rivendicazioni moderne, parlamento, suffragio universale, ecc., rese possibili dall'avvenuto sviluppo capitalistico europeo.
In sostanza gruppi d'intellettuali, di tutti gli strati ma soprattutto studenti, il cui ruolo diveniva sempre più necessario alle modernizzazioni militari dello zarismo, finivano per esprimere la loro opposizione all'oppressione zarista riprendendo a modo loro le teorie «rivoluzionarie» europee, marxismo incluso, ed identificando nei contadini russi l'unica forza capace di realizzarle, e nello Stato, lo zarismo, colpevole di introdurre i sistemi che corrompevano il comunismo spontaneo dei russi, il principale, se non l'unico, nemico.
L'azione dei populisti, dall'andata al popolo degli anni '60 al riuscito attentato allo zar del 1881, aveva costantemente e ripetutamente fallito il tentativo di coinvolgere i contadini dei villaggi. Proprio questi fallimenti saranno una delle componenti che spinsero i populisti a formule organizzative sempre più elitarie sino al ristrettissimo gruppo terroristico. Così mentre l'idea stessa, e quindi i tentativi, di abbattere il dispotismo zarista erano il prodotto di un elemento esterno, estraneo, la forza che doveva attuarla era tanto genuinamente russa quanto estranea ai suoi presunti «rappresentanti».

Franco Venturi nel primo capitolo del suo II volume, "Il populismo russo - Dalla liberazione dei servi al nihilismo", riassume la situazione contadina che porterà all'ukaz sull'abolizione della servitù della gleba. Anche il Venturi cerca di comprendere quali fossero e come si manifestassero le aspirazioni dei contadini. Riportando però movimenti e sommosse contadine non può fare a meno di sottolineare come fossero determinate «dall'alto». Venturi non fa quindi che confermare quanto detto da Marx ed Engels sui movimenti contadini in Russia. Non è questo l'aspetto in questione ma come il contadiname basasse su un inaudito idiotismo rurale, persino peggiore, se possibile, di quello feudale, la ferma convinzione che i propri interessi fossero incarnati dallo zar.
Lo sfavorevole andamento della guerra di Crimea aveva costretto lo zar ad estendere il reclutamento militare scuotendo la stagnante esistenza contadina.

Nel 1856 interi villaggi della Russia meridionale furono messi in moto dalla voce che nelle zone della Crimea devastate dalla guerra si stavano distribuendo delle terre libere. Così nel governatorato di Ekaterinoslav e di Cherson si diceva insistentemente che nell'istmo di Perekop «stava lo zar con un cappello d'oro e dava libertà a tutti quelli che arrivavano, mentre coloro che non si fossero presentati o fossero arrivati in ritardo sarebbero rimasti servi dei signori come prima». «Sotto l'influenza di queste voci - narra la Ignatovic - i contadini si mossero con le famiglie e con tutte le loro robe, talvolta a villaggi interi, alla ricerca di questo zar leggendario con l'idea di diventare liberi coloni in Crimea». Nella maggioranza dei casi si accomiatavano dai pomesciki assai amichevolmente, pur portandosi via il bestiame necessario, gli strumenti di lavoro, eccetera.

Di passaggio osserviamo che il Venturi mostra sorpresa per il fatto che i contadini si portassero appresso bestiame ed attrezzi; ma bestiame ed attrezzi erano loro. Stupefacente che non venga invece osservato che i contadini abbandonassero di fatto ai pomesciki la loro terra, la terra del mir, pur di conseguire la libertà di coltivarla gratuitamente ora che, ritenevano, lo zar la concedesse loro.
Un altro scossone doveva movimentare il mondo contadino. E' del 1861 il Manifesto zarista che proclamava la «liberazione», la fine della servitù della gleba. Scritto in un linguaggio giuridico-burocratico, fece insorgere una congerie di incomprensioni che sfociarono in vere e proprie sommosse. Osserva il Venturi:

Nel governatorato di Minsk l'agitazione si diffuse al grido di «tenere duro, è la nostra volta». Erano convinti che lo zar avesse dato loro «la libertà e la terra» (volja e zemlja). Nel villaggio di Kadymkor (governatorato di Perm') i contadini dichiararono che il gendarme locale aveva letto loro un falso manifesto, quello autentico dovendo essere scritto a lettere d'oro. Si riunirono in duemila per esigere venisse loro spiegato «che razza di libertà era quella, che li lasciava come prima sotto l'autorità del conte loro padrone».
La convinzione che lo zar avesse concesso una «vera libertà» era così diffusa che non era neppure necessario assicurarsene cercando di mettersi in contatto con lui. Bastava leggere esattamente il manifesto per esserne convinti. Naturalmente non mancarono le persone che trovavano nella legge proprio quel che i contadini vi cercavano. Tanto più che questi eran disposti a pagare quelli che erano in grado di leggere tali testi. Ex soldati, scrivani, qualche polacco o ebreo nei territori occidentali, popi, bigotti del raskol, divennero così gli interpreti della grande speranza che aleggiava nei villaggi e costituirono la causa immediata della maggior parte delle sommosse. Due distretti della regione di Pensa, ad esempio, furono profondamente agitati dall'«interpretazione» data dal soldato settantenne Andrej Semenov Elizarov. Costui aveva combattuto contro la Polonia, era stato a Parigi nel 1814, e godeva di un grande ascendente sui suoi conpaesani, dai quali si faceva chiamare «il conte Tolstoj». Nell'aprile dello 1861, vestito della sua vecchia uniforme militare, con sul petto le medaglie che si era guadagnato, li aveva persuasi che essi dovevano «battersi per Dio e lo zar». Ventisei villaggi rifiutarono di continuare a obbedire ai signori e alle autorità, si concentrarono in numero di tremila e si gettarono sulle prime truppe accorse per disperderli. Dopo uno scontro in cui i contadini ebbero tre morti e quattro feriti - ma fecero prigionieri, tra cui un sottufficiale - le truppe dovettero ritirarsi. Il movimento si allargò. A Penza giunse notizia che 10 mila contadini si erano radunati nel grido di «Libertà! Libertà!» (volja volja), portavano in giro per i villaggi una bandiera rossa, offendendo gli ecclesiastici, battevano le autorità rurali, minacciando di fare altrettanto con i superiori amministrativi e militari ... e proclamavano: «la terra è tutta nostra. Non vogliamo pagare l'obrok (i gravami) e non lavoreremo per i signori». Quando la truppa si avvicinò di nuovo, i contadini dichiararono «d'esser pronti a morire per Dio e per lo zar» e di non voler lavorare per i signori «neanche se l'impiccavano» , ma piuttosto di «voler morire fino all'ultimo». (...) Soltanto dopo aver lasciato sul terreno 8 morti e 27 feriti e dopo che gli elementi più decisi vennero fatti prigionieri, giudicati seduta stante e fustigati, l'agitazione andò lentamente diminuendo.

Ancora

Il distretto di Spassk, tra la volga e la Kama, contava 23 mila anime (capi famiglia). Non era una terra povera. Il generale Akraxin, su cui ricadde la responsabilità di sedare la rivolta, diceva che era abitato da contadini «assai benestanti». Benché fossero in grande maggioranza di origine russa, non mancavano colonie tartare come in tutta la gubernija di Kazan', entro la quale questo distretto era compreso.
Pubblicato il manifesto, anche gli abitanti di queste terre cominciarono a guardarsi attorno per trovare chi lo interpretasse secondo le loro aspirazioni. Un contadino del villaggio di Bezna, Anton Petrov, a forza di riguardare nel testo, finì per trovare quel che cercava. Era un raskol'nik, sapeva leggere e nutriva quella venerazione, tipica dei settanti, per la parola scritta, per i testi stampati che dovevano contenere la verità, purché si riuscisse a leggervela. gli bastò vedere due zeri, 00, laddove - invece di lasciare uno spazio bianco - si erano indicate così le cifre da determinarsi ulteriormente, per persuadersi che si trattava d'una «falsa» libertà. Quella autentica doveva portare una croce di Sant'Anna, che egli riconobbe in un «10% » stampato in un altro punto della legge. Da quel giorno Petrov cominciò predicare la sua «libertà». La servitù era già abolita da tempo, diceva. Le autorità nascondevano ai contadini questa verità. Ora si trattava di costringerle a leggere il testo autentico. Fu considerato un profeta, i contadini accorrevano a lui non soltanto dai villaggi vicini, ma anche dalle province circostanti, Samara, Simbirsk. Cominciò a esercitare una vera e propria autorità sui contadini dei signori, su quelli dello stato, su russi e tartari.

In tutti questi casi, come in quelli qui non citati, solo la violenta repressione delle manifestazioni poté avere ragione del contadiname.
In ogni caso anche il Venturi non può non concludere che

In realtà, quando i contadini sognavano la «vera libertà», pensavano soprattutto ad un distacco integrale, completo della comunità dal signore, ad una rottura d'ogni rapporto, al chiudersi dell'obscina su se stessa.

Conclusione, sia pur sintetizzata, a cui non si può non muovere la critica di non sottolineare il legame, sino al 1917 fondamentale per il contadino russo, tra obscina e zarismo.
In ogni caso il populismo russo poggia la propria prospettiva sulla forza sociale «contadina». Di questa assorbirà l'incosciente, preborghese e selvaggia, idea che sull'isolamento sociale possa basarsi un qualsiasi progresso sociale.
Sempre il Venturi riporta i contenuti di un manifesto pubblicato clandestinamente nel 1861 dalla prima vittima populista della repressione zarista, Michail Larionovic Michaijlov.

«Fratelli, avete sentito parlare della libertà che han dato al popolo? Parlate con i contadini e saprete che non è una vera libertà ... ricordatevi allora che voi siete nati in quelle stesse izbe che i signori stanno ora portando via ai contadini, che siete stati battezzati in quelle stesse chiese dove ora essi pregano Dio affinché li liberi dal male e dalla violenza...»
«Chi può affermare che noi dobbiamo seguire la strada dell'Europa, la via di una qualche Sassonia, Inghilterra o Francia? ... Dov'è la scienza che gli ha insegnato questo, che gli ha detto che le sue idee sono infallibili? Noi almeno simile scienza non la conosciamo. Noi sappiamo soltanto che Gneist, Bastiat, Rau, Roscher, non fanno che scavare nel letame per fare del marcio dei secoli passati una legge per il futuro. Che simile legge resti agli altri, noi cercheremo di trovarcene un'altra... chi non conosce che l'Europa dalle centinaia di stati tedeschi con i loro re, duchi e principi, o la Francia con il suo Napoleone, si stupisce certo apprendendo che in America l'ordine è del tutto diverso. Perché la Russia non potrà giungere a ordinamenti nuovi, sconosciuti persino in America? Noi non soltanto possiamo, ma dobbiamo arrivare a qualcosa di diverso. Nella nostra vita stanno dei principì del tutto ignoti agli europei. I tedeschi affermano che noi arriveremo al punto cui è giunta ormai l'Europa. È una menzogna ...»

Ricorda il Venturi che il manifesto «Terminava proponendo i principi generali di un programma: elezione, libertà di parola, autoamministrazione, eguaglianza e nazionalizzazione della terra.»

«Questa [la terra] non deve appartenere al singolo, ma al paese. Ogni obscina deve avere un suo appezzamento, l'agricoltura privata non deve esistere, la terra non si deve poter vendere come si vendono le patate o i cavoli. Ogni cittadino, chiunque esso sia, deve farsi membro di un'obscina, cioè o inserirsi in una già esistente o formarne una nuova con altri cittadini. Vogliamo il mantenimento del possesso collettivo della terra con ridistribuzione a lunghe scadenze. Questa questione non riguarda lo stato. Se l'idea del possesso collettivo è un errore, che esso muoia per propria incapacità a sopravvivere e non per l'influenza della dottrina economica dell'occidente.».

Il Venturi ne ricava però che non la nazionalizzazione, termine che egli introduce, della terra caratterizzi il manifesto ma

il tono fideistico ed entusiastico con cui tali idee erano espresse e nella volontà di farle trionfare ad ogni costo. Potevano ammettere d'aver dei dubbi sull'organizzazione politica futura o magari sull'obscina, ma affermavano con sicurezza che per creare una Russia egualitaria e libera bisognava far tabula rasa del passato, che l'unica forza capace di compiere simile salto era il popolo guidato dalla gioventù.

Così facendo il Venturi cade nella stesso groviglio sociale da cui non sarà l'unico a non districarsi.. Una categoria «sociale» come quella della nazionalizzazione, presuppone la «proprietà privata» di ciò che si pretende nazionalizzato o nazionalizzare, in questo caso della terra. E' un'illusione ottica determinata dai diversi modi di produzione affrontati, in questo caso asiatismo e capitalismo. La terra russa non era oggetto di alcuna «proprietà privata». La terra russa era zarista, statale, nazionalizzata se proprio si vuol adoperare questo termine e, sempre per adoperare questo termine, chiunque succedendo allo zar, avesse voluto nazionalizzare la terra non avrebbe dovuto rivoluzionare alcun aspetto dei rapporti di proprietà in agricoltura, sarebbe bastato conservare i rapporti esistenti come afferma del resto lo stesso Michaijlov. Gli stessi «proprietari terrieri» russi dell'epoca non lo erano in quanto «proprietari privati» ma per concessione od in quanto elevati al rango di «nobiltà» dallo zar, cioè nobili non per nascita come invece la nobiltà feudale. Torneremo su questi aspetti ma quel che è certo, incontestabile, è che nella Russia zarista della seconda metà dell'800 non esisteva proprietà privata della terra. Non esisteva una proprietà privata il cui significato sociale fosse la mancanza di proprietà al polo opposto. Anzi la proprietà terriera del pomesciki si sposava col possesso contadino tramite l'obscina. Proprietà terriera è terminologia capitalistica, che nasconde l'effettiva «signoria» sulla terra come invece dimostrato non solo dalle funzioni di polizia ecc., ma dalle stesse convinzioni dei mugiki che rivolgendosi ai loro «signori» sostenevano che «Noi siamo tuoi ma la terra è nostra».
I populisti, accomunati tutti dal rivendicato mantenimento del possesso collettivo della terra, si caratterizzeranno per tale rivendicazione sino alla rivoluzione d'Ottobre quando, per attrarre i contadini dalla propria parte, i bolscevichi dovranno adottare il programma agrario dei socialisti-rivoluzionari, cioè dei populisti trasformati in partito.
Questa nazionalizzazione della terra, quindi, non è una rivendicazione rivolta contro il passato ma contro il futuro, contro la prospettiva che lo sviluppo capitalistico apriva alla Russia. Via via che lo sviluppo capitalistico procedeva, o sembrava procedere ai populisti, l'urgenza di arrestare la paventata proletarizzazione contadina diveniva sempre più pressante per i populisti. Dieci anni dopo Michaijlov, nel 1874, Tkaciov, che citiamo per tutti, sostiene:

La classe dei nobili proprietari terrieri è rovinata, debole, del tutto priva di forza, tanto numericamente quanto per la sua situazione politica. Il nostro tiers etatè composto più di metà di proletari, di miserabili, e soltanto nella minoranza cominciano a formarsi dei veri borghesi nel senso occidentale di questa parola. Ma, naturalmente, non si può sperare che simili condizioni sociali per noi favorevoli sussistano a lungo. Per quanto lentamente e debolmente, pure noi ci muoviamo sulla via dello sviluppo economico, e questo sviluppo è sottoposto alle stesse leggi e si compie nella stessa direzione dello sviluppo economico degli stati occidentali. La obscina comincia a dissolversi, il governo fa ogni sforzo per annientarla e distruggerla definitivamente. Nella classe contadina si sta formando una classe di kulaki, compratori e affittuari di terre contadine e nobiliari, una aristocrazia contadina. Il libero passaggio della proprietà terriera di mano in mano trova ogni giorno ostacoli minori, l'allargamento del credito agrario, lo sviluppo delle operazioni monetarie aumentano ogni giorno, i pomesciki, volens nolens, sono posti nella necessità di introdurre miglioramenti nel sistema della loro agricoltura. Simile progresso si accompagna generalmente ad uno sviluppo dell'industria nazionale, con un allargamento della vita cittadina. Esistono perciò da noi, già in questo momento, tutte le condizioni per la formazione, da una parte di una fortissima classe conservatrice di contadini - proprietari e farmers - e dall'altra d'una borghesia del denaro, del commercio, dell'industria, di capitalisti insomma. Man mano che queste classi si formeranno e rafforzeranno, la situazione del popolo inevitabilmente peggiorerà e le chances di successo d'un rivolgimento violento diverranno sempre più problematiche. Ecco perché non possiamo aspettare. Ecco perché affermiamo che in Russia la rivoluzione è realmente indispensabile, e indispensabile proprio adesso. Non ammettiamo alcun rinvio, alcun ritardo. Adesso, o forse, ben presto, mai! Ora le circostanze giocano a nostro favore, tra dieci o vent'anni saranno contro di noi. Capite tutto ciò? Capite la vera ragione della nostra fretta, della nostra impazienza?

Se quindi in un primo tempo i populisti rappresentando l'elemento estraneo contribuiscono a scuotere positivamente il dispotismo zarista, man mano che uno sviluppo capitalistico procedeva comunque anche in Russia, assumevano un ruolo sempre più chiaramente reazionario. Sul finire del secolo Lenin sottolinerà questi aspetti, ma ciò che dobbiamo rilevare qui è come dal ruolo sempre più esplicitamente ed inconsapevolmente reazionario dei populisti discenda direttamente una sopravalutazione del capitalismo russo. Dal punto di vista di chi difendeva l'obscina ogni breccia rappresentava un pericolo ed una prospettiva mortale. Ma da una prospettiva storica non si può non constatare che il capitalismo, pur diffondendosi e provocando la reazione dei populisti, restava una tendenza ben lungi dall'essersi affermata non solo socialmente ma anche economicamente, soprattutto nelle campagne, ma la Russia era campagna. Il kulak non riusciva ad emanciparsi dal mir. Anche quando trovava forza-lavoro e terra da affittare questa disponibilità era sempre creata dalle contraddizioni genetiche del mir che determinavano quindi anche le sue stesse possibilità d'arricchimento. L'insufficienza, progressiva a causa della crescita demografica, del lotto di terra distribuito dal mir ai contadini costringeva i più poveri ad affittare sia la terra che il proprio lavoro ed i propri attrezzi, cavalli ecc.. Ma questa disponibilità non era libera. Lo stesso contadino che affittava la terra, come l'affittuario, non poteva andarsene in altro luogo, né trovare altra terra, restando vincolato al mir (solo sul finire del secolo il sistema dei passaporti sarà abolito ... giuridicamente).
Quando Tkaciov vede farmers nelle campagne russe sogna letteralmente ad occhi aperti. Vede nel kulak, una specie di usuraio di villaggio, la figura dell'imprenditore capitalista che sposta capitali ed attrezzi da un luogo ad un altro, da un saggio di profitto ad un altro, secondo la propria convenienza. Ma la figura del farmer resta del tutto inesistente ed è probabilmente, soltanto oggi, forse, presente nelle campagne russe.
L'abolizione dei passaporti limiterà il danno ma la dotazione di terra (nadiel) determinata dall'appartenza al mir, cui i contadini restavano tenacemente abbarbicati rappresentando la loro unica fonte di sussistenza, resterà l'ostacolo principale alla formazione delle correnti migratorie tipiche della formazione sociale capitalistica, quelle della proletarizzazione capitalistica.
Sostenere quindi che il manifesto della liberazione dei servi rappresenti, in Russia, il punto di partenza, lo spartiacque tra il medioevo ed il capitalismo russo, come hanno fatto storici stalinisti, è una mistificazione. Non solo perché il presunto medioevo non era tale (cfr. il nostro articolo sul feudalesimo statale) ma soprattutto perché la cosiddetta liberazione dei servi deve considerarsi, appunto cosiddetta non perché il suo costo fu fatto ricadere sul contadino (solo Cernicevskij ventilò la rivendicazione che questi costi fossero a carico dello stato) ma perché non lo liberava dal mir, dall'obscina, non lo emancipava dalla proprietà collettiva. Cioè non separava il produttore dai mezzi di produzione impedendo la formazione, ai lati opposti del processo, delle fondamentali due classi capitalistiche.
Di questi effetti della riforma Lenin tratta in alcuni articoli che pubblicherà nel 1897 col titolo "Quale eredità respingiamo", alcuni dei fatti inerenti la riforma sono riportati da uno scritto del 1867 di Skaldin che Lenin considera un «illuminista», quindi favorevole alla riforma anche se non esita a criticarne l'applicazione. Lenin lo cita:

«Ma è forse la riforma contadina responsabile del fatto che la legge, abolendo lo stato di servitù del contadino nei confronti del grande proprietario fondiario, non ha escogitato nulla per abolire il suo stato di servitù nei confronti dell'obscina o del luogo in cui è registrato? ... Dove sono i segni della libertà civica, quando il contadino non può scegliersi liberamente il domicilio o il genere di lavoro?»
...
«Oltre all'ignoranza dei contadini e alle imposte in continuo aumento, una delle cause che frenano lo sviluppo del lavoro contadino, e quindi l'elevamento del benessere dei contadini, è il fatto che i contadini sono vincolati all'obscina e ai loro nadiel. Che la mano d'opera sia vincolata a una località e la comunità agricola incatenata da vincoli indissolubili è di per sé una condizione estremamente svantaggiosa per lo sviluppo del lavoro, dell'iniziativa privata e della piccola proprietà fondiaria.»
...
«I contadini, inchiodati al loro nadiel e alla loro obstcina, non potendo lavorare là dove il lavoro è più produttivo e più redditizio per loro, sono rimasti fermi a quella tediosa, animalesca e improduttiva forma di vita che conducevano nel momento in cui erano usciti dalla servitù della gleba».
...
«Non soltanto il vincolo che lega i contadini al loro nadiel e alla loro obscina, ma anche le temporanee assenze dovute alla necessità di guadagnarsi il pane comportano numerose noie e spese, a causa della responsabilità collettiva e del sistema dei passaporti».
...
«A mio avviso, molti contadini potrebbero trovare una via d'uscita dalla difficile situazione attuale, se si fossero adottate ... misure tali da consentir loro di rinunciare alla terra.»

Lenin, dopo aver ricordato che da qualche anno il sistema dei passaporti era stato abolito, commenta:

Da quel tempo numerosi fatti hanno pienamente confermato che Skaldin aveva ragione: il fatto che i contadini siano vincolati alla terra e il carattere chiuso, di casta, dell'obstcina non fanno che peggiorare la situazione del proletariato agricolo e frenare lo sviluppo economico del paese ...

Rileviamo, sia pure di passaggio, come Lenin definisca «proletariato agricolo» lo stesso contadino che non esita a qualificare quale membro di una casta, che, non a caso, può trarre vantaggio dallo sviluppo capitalistico liberandosi della terra. Reincontriamo qui l'ormai solito groviglio sociale. La potenziale esistenza delle due classi capitalistiche, che da un lato terrorizza i populisti, conforta dall'altro i marxisti. Ma è la traiettoria sociale che entrambi disegnano a dare vita potenziale alle sopradette classi capitalistiche nella campagna russa.
Ciò che invece dobbiamo qui registrare è come, anche per Lenin nel 1897, l'abolizione della servitù della gleba non abbia intaccato il mir, come l'abolizione delle importate (nel 1547 da Ivan il Terribile) vestigia feudali non abbia intaccato la struttura asiatista della Russia, anche se il mir appare ormai minato, corroso all'interno, e non può più quindi assolvere al compito internazionale che Marx aveva, ipoteticamente, attribuito alla Russia con un possibile passaggio dal comunismo primitivo al comunismo proletario.

Contro i sostenitori dell'obscina Skaldin obietta che il «secolare diritto consuetudinario» ha fatto ormai il suo tempo: «In tutti i paesi, a mano a mano che gli abitanti della campagna vengono a contatto con un ambiente civile, il loro diritto consuetudinario perde la sua iniziale purezza, è soggetto ad alterazioni e deformazioni. Da noi si nota lo stesso fenomeno: il potere dei mir si trasforma a poco a poco nel potere dei parassiti e degli scrivani dei villaggi e, anziché tutelare la personalità del contadino, diviene per lui un giogo oneroso».

Anche Nicholas V. Rjasanovskij in "Storia della Russia", se non altro, sintetizza bene la situazione del mir:

Le comunità, ricevuta la terra all'epoca dell'emancipazione, furono rese responsabili delle tasse e dei reclutamenti, e destinate ad essere le cittadella dell'ordine della vita organizzata nelle campagne. Indubbiamente esse aiutarono molti contadini ad orientarsi nella complessa Russia della riforma e fornirono ai loro membri almeno un minimo di sicurezza. Gli stessi lavoratori dell'industria, come abbiamo detto, pensavano spesso di ritirarsi nei loro villaggi. Ma il prezzo dei servizi comunitari era alto. Le comunità tendevano a perpetuare una conduzione agricola arretrata, addirittura arcaica; insistevano nei loro metodi tradizionali e assurdi, dividendo ad esempio la terra in piccole strisce così che ciascuna famiglia riceveva a terra di ogni tipo; e difettavano di capitali, di capacità tecniche e di iniziative per attuare una modernizzazione. I contadini indipendenti, anche quando avevano tendenze più progressiste, erano obbligati in gran parte a seguire le pratiche dei loro vicini, e inoltre non avevano incentivo a migliorare i loro terreni in quelle comunità che ridistribuivano periodicamente la terra. Al tempo stesso le comunità intralciavano notevolmente i movimenti dei contadini, favorendo un crescente sovraffollamento della campagna. I membri di una comunità ottenevano spesso con difficoltà l'autorizzazione ad andarsene, in quanto la loro partenza avrebbe costretto la comunità a far fronte egualmente agli obblighi verso lo stato con un numero inferiore di uomini. Inoltre, dove le comunità ripartivano periodicamente la terra fra le famiglie, il capo della famiglia poteva impedire la partenza di uno dei suoi membri col pretesto che alla prossima ridistribuzione si sarebbe visto assegnare meno terra.

Così mentre la conservazione dell'obscina era al centro dell'attenzione dei populisti non lo era meno per lo stesso zarismo per il quale tasse e reclutamenti erano esiziali e di cui intenti quindi non erano meno reazionari dell'utopia populista.
Ma restiamo ai populisti. Dopo un decennio di decantazione politica ed ideologica, gli anni '60, i populisti metteranno in pratica l'andata al popolo conclusasi con un fallimento totale. L'ignavia e l'idiotismo rurale dei contadini era tale che spesso, o quasi sempre, i contadini stessi denunciavano all'autorità la presenza illegale di populisti nei loro villaggi. Esemplare il fatto che l'unica sollevazione che i populisti riuscirono ad attuare fu scatenata da un loro falso manifesto zarista che invitava la popolazione a sollevarsi contro i pomesciki.
Gli storici concordano che almeno duemila, tremila, studenti parteciparono all'andata al popolo. E' una cifra notevole se rapportata alla popolazione non contadina della Russia dell'epoca. Processi di massa conclusero questa stagione populista nella repressione riducendo l'azione populista al terrorismo del periodo successivo. Due decenni di storia di lotta politica stanno lì a dimostare come i populisti non rappresentassero i contadini nel senso che noi diamo oggi al concetto di rappresentanza politica. In un certo senso i populisti avevano adottato i contadini ma non ne erano espressione né rappresentanti. Il rapporto moderno, capitalistico, di rappresentanza politica richiede un peso sociale dell'economia che riduca l'imposta ad una semplice quota nella ripartizione del profitto, ad una tassa. Non era il caso della Russia, all'epoca ancora regno di tributi e rendita fondiaria.

Mentre si svolgeva questa serie di tappe paradossalmente l'influenza ideologico-sentimentale dei populisti si allargava. Era un influenza che non giungeva, salvo eccezioni, alla complicità col terrorismo, ma che si estendeva nella pur ristretta società civile russa.
Adoperiamo ancora il lavoro di Riasanovkij che, almeno, riassume questi aspetti:

Il governo locale era rimasto per secoli uno dei punti più deboli dell'amministrazione e della vita in Russia. La struttura ereditata dallo «zar liberatore» risaliva alla legislazione della Grande Caterina e combinava la direzione burocratica con una limitata partecipazione della nobiltà locale; altra caratteristica delle campagne prima della riforma erano gli ampi poteri giudiziari che i latifondisti godevano nell'ambito delle loro proprietà. La nuova legge, promulgata nel gennaio 1864, costituì un deciso ammodernamento e una democratizzazione del governo locale, come pure uno sforzo deciso da parte dello stato di venire incontro alle molto urgenti necessità della Russia rurale, stimolando soprattutto l'iniziativa locale. A livello distrettuale e provinciale vennero creati organi di autogoverno, assemblee e comitati dello Zemstvo (il termine Zemstvo contiene la radice di Zemlja, terra, e sta a indicare il paese o il popolo distinti dal governo centrale). L'elettorato dell'assemblea distrettuale dello Zemstvo era formato da tre categorie: le città, le comunità rurali e i singoli proprietari terrieri, anche quelli non appartenenti alla nobiltà. La rappresentanza era proporzionale alla proprietà terriera, con qualche riconoscimento a chi possedeva beni immobili nelle città. Le elezioni erano indirette. I membri delle assemblee distrettuali eleggevano a loro volta nel proprio ambito, senza distinzione di classe, i delegati alla loro assemblea provinciale. Mentre le assemblee distrettuali e provinciali, sulle quali si fondava l'autorità dello Zemstvo, si riunivano una sola volta l'anno per discutere di problemi come il bilancio annuale e gli indirizzi di fondo, comitati da esse eletti funzionavano in continuazione come uffici esecutivi impiegando personale professionistico. Molti problemi locali rientravano nella competenza delle istituzioni dello Zemstvo: istruzione, servizi sanitari e veterinari, assicurazioni, strade, costituzione di scorte alimentari, eccetera.
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Malgrado le sue deficienze - [...] - il sistema dello Zemstvo fu molto vantaggioso per la Russia rurale, dal giorno in cui fu instaurato (1864) alla abolizione avvenuta nel 1917. Particolarmente importante fu il contributo da esso recato all'istruzione e alla sanità pubblica. La Russia, grazie allo Zemstvo, pervenne a una specie di servizio mutalistico molto tempo prima di altri paesi con cure mediche e chirurgiche assolutamente gratuite. Come hanno rilevato G. Fisher e altri studiosi, Il sistema agì anche, contrariamente all'intenzione del governo, da scuola di radicalismo e soprattutto di liberalismo, che non ebbe però occasione di esprimersi su scala nazionale fino ai fatti del 1905 e 1907.

Contemporaneamente alla riforma amministrativa prese avvio quella giudiziaria. I processi, basati su di una procedura segreta con magistrati legati all'amministrazione, furono riorganizzati sull'esempio francese. La magistratura resa indipendente, le procedure processuali ridotte drasticamente, da ventun tipi di processo a due e rese pubbliche, furono istituite le giurie popolari e fu introdotta la rappresentanza delle parti in dibattimento cogli avvocati, ecc.. Anche quella scolastica non mancò di far sentire i suoi effetti allargando il numero degli studenti. Insegnanti, avvocati e studenti ebbero un ruolo non meno importante del personale amministrativo degli Zemstvo nell'isolamento crescente dell'autocrazia zarista, per avvocati e studenti persino con i grandi processi che seguirono l'andata al popolo.
L'azione dei populisti dall'andata al popolo passò alla stagione del terrorismo che culminò nell'assassinio dello zar.
Rjasanovkij rende bene l'idea del clima in cui avvenne.

La società segreta rivoluzionaria «Terra e Libertà» (Zemlja i Volja), costituita 1876, si scisse due anni dopo in due gruppi: «Risuddivisione nera»( Cernj Peredel), che poneva l'accento sul gradualismo e la propaganda, e «Volontà del Popolo» (Narodna i Volja) che scatenò un offensiva terroristica globale contro il governo. I membri di «Volontà del popolo» erano convinti che, dato il carattere altamente centralizzato dello stato russo, pochi assassinii sarebbero stati sufficienti ad assestare un colpo tremendo al regime, e a provvedere alla necessaria educazione politica della società colta e delle masse. Come principale bersaglio scelsero l'imperatore Alessandro II, condannandolo a morte. Ciò che avvenne in seguito è stato descritto come una «caccia all'imperatore», e per certi aspetti supera ogni immaginazione.

I populisti, che non erano riusciti ad ottenere un benché minimo risultato con l'azione politica, riuscirono così ad ottenere nell'isolamento della clandestinità un apparente massimo risultato uccidendo lo zar. Il ristretto gruppo di terroristi, trenta, quaranta al massimo, concluse la propria opera grazie ad uno spirito di sacrificio eroico. Molti di questi terroristi avevano rinunciato ad ereditare la posizione sociale delle proprie famiglie, tutti avevano coscientemente rischiato esilio, tortura, vita. Ma ciò che rese possibile il loro successo fu la convinzione pazzesca che abbattendo lo zar sarebbe crollato lo zarismo, che il regno pseudosocialista dell'obscina si sarebbe avverato. Alla base di questa convinzione un fanatismo che nonostante tutte le influenze sociali esterne alla Russia risentiva fortemente della religiosità, del panslavismo russo. Sorprendente come, oggi, questi terroristi non siano considerati gli antesignani dei kamikaze, soprattutto di quelli arabi. Se si vuol comprendere la psicologia, la capacità ed i limiti reazionari dell'azione del terrorismo islamico odierno occorre studiarne i loro antesignani populisti. Non a caso i bolcevichi russi non caddero mai nello sterile terrorismo ai cui obbiettivi si richiede il massimo sforzo per il men che minimo risultato.
Comunque, se Alessandro II era disposto a correre un qualche rischio, pur di ammodernare la potenza russa, non altrettanto si può dire del suo successore Alessandro III il cui insediamento avviò un periodo di ritirata dello zarismo da tutte le concessioni amministrative.
Secondo alcuni Alessandro III non revoco l'ukaz del 1861 perché non poteva più revocare la liberazione dei contadini. Che Alessandro III non sia arrivato a tanto è un fatto. Che non potesse è un opinione rispettabile ma non ho trovato testimonianza che lo volesse. La storia successiva dello zarismo chiarirà meglio di tutte le opinioni di questo mondo questa questione.
Resta comunque da capire perché, cosa rese necessaria al populismo l'adozione di un'ideologia sostanzialmente reazionaria. Che i populisti guardassero al contadiname russo, all'obscina non è sufficiente a tale comprensione. Perché mai l'obscina doveva seguire una via diversa da quella seguita dal contadiname francese nel 1789? Perché opporsi alla proprietà privata della terra anziché propugnarla?
La risposta naturalmente è molto complessa e non esclude neanche la psicologia populista. Ma l'essenziale è che la storia sociale avesse già espresso una simile mutazione politica. Nessuna politica è il riflesso speculare degli interessi che vuol rappresentare (e ciò è tanto più vero per quella dei populisti) ma è sempre elaborazione, formulazione, d'interessi. Nonostante gli interessi della borghesia tedesca, nel corso della rivoluzione del 1848, non fossero diversi da quelli della borghesia francese del 1789, essa espresse una politica diversa. L'irruzione sulla scena sociale di un nuovo protagonista, il proletariato, costrinse la politica della borghesia tedesca a tenere in debito conto il mantenimento dell'ordine sociale, a rinunciare ad una politica radicalmente rivoluzionaria contro l'oppressione dinastica. L'esistenza stessa del proletariato smentiva l'idilliaca prospettiva sociale che la borghesia francese aveva invece potuto usare per subordinare ai suoi interessi tutte le classi sociali oppresse. Il suo eventuale dominio poteva essere messo in discussione dalla rivoluzione che lo avrebbe potuto rendere possibile. Il futuro era già presente.
Naturalmente ciò costituirà a sua volta causa di un mutazione nella politica del proletariato, cosa di cui qui non ci preoccupiamo, ma anche una mutata prospettiva per gli stessi contadini tedeschi che, senza l'appoggio incondizionato della borghesia, non poterono aspirare alla proprietà terriera alla francese.
I mutamenti sociali, lo sviluppo capitalistico, avevano mutato la rappresentazione politica dell'identico interesse.
Nella seconda metà dell'800 la proletarizzazione delle campagne capitalistiche era ormai un fatto assodato, riconosciuto. Anche ai populisti non occorreva la scienza marxista per comprendere che la piccola produzione, anche quella agricola, non era che il preludio a tutte le miserie del lavoro salariato, disoccupazione compresa.
Così mentre il contadino russo, il mugik, restava abbarbicato dalla propria selvaggia esistenza alla sua obscina, per altro verso ricavava le stesse conclusioni il suo aspirante ideologo, il populista, rigettando la più che concreta prospettiva capitalistica.
La misera realtà sociale dell'uno rendeva possibile una convergenza con l'utopia pseudosocialista dell'altro. Possibilità che avrebbe conservato alla Russia una sinora misconosciuta, originale e reazionaria «Vandea».

C.D.C. 1 Gennaio 2003


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