Note di metodo nello studio della natura sociale dell'URSS (5)
Zarismo: il «grande balzo» industriale.

Per poter meglio illustrare la rivoluzione del 1905, dunque al termine di un periodo unanimemente considerato come quello del «grande balzo», o del «decollo» dell'industrializzazione russa, Trotzky afferma:

L'industria più concentrata d'Europa sullo sfondo dell'agricoltura più arretrata. La più gigantesca macchina statale del mondo, che si serve di tutte le conquiste della tecnica moderna per frenare il processo storico del proprio paese.

In questa frase, breve, lapidaria, lo stratega della rivoluzione d'Ottobre scolpisce e riassume l'ambiente sociale russo dell'epoca.
Anche Amadeo Bordiga la riporta nel suo "Russia e rivoluzione nella teoria marxista" di quasi cinquant'anni dopo. Nella versione del "1905" da cui Bordiga trascrive la frase, la parola «gigantesca» è tradotta con «potente» che in tutta evidenza appare più appropriata. Comunque Bordiga concorda con Trotzky sullo sviluppo industriale della Russia zarista senza rendere tuttavia conto della natura «asiatica», «semiasiatica» per Trotzky, che la frase descrive sottolineando la capacità dello stato russo di utilizzare «tutte le conquiste della tecnica moderna per frenare il processo storico del proprio paese».
Per tutta la II Internazionale fino a tutto l'antistalinismo tradizionale, invece, «tutte le conquiste della tecnica moderna» sono il processo storico, che sarebbe veicolato proprio da un tale sviluppo delle forze produttive cui è sostanzialmente demandato il compito di spezzare le "catene" che bloccano, appunto, il «processo storico». E' sulla base di questa concezione che la socialdemocrazia tedesca è arrivata a considerare la conquista della maggioranza parlamentare, poggiante sul dominio capitalistico del capitale finanziario, sul controllo finanziario, come socialismo. E' sulla base di questa concezione che lo stalinismo ha potuto presentare se stesso come il prodotto della massima evoluzione sociale, cioè del controllo stesso delle forze produttive, della "pianificazione", come socialismo in un solo paese. Sulla medesima base l'antistalinismo tradizionale ha sempre finito per considerare lo stalinismo, l'URSS, nonostante tutto, positivamente, un veicolo dello sviluppo delle forze produttive. Gli uni qualificandolo come "capitalismo di stato", gli altri come "Stato Operaio degenerato", considerate «forme» pur sempre superiori all'anarchico "capitalismo privato", distruttore di forze produttive.
Per questa concezione la «tecnica», la «produzione», finisce per sovrastare l'ambito sociale che la determina, producendo una visione errata della «crisi», del cosiddetto grado della crisi, spesso messianicamente attesa, come verso la storia, sempre affrontata come un fattore utile, "fondamentale", ma di fatto spinto in secondo piano rispetto ai compiti che, guarda caso, la «crisi» così prospettata imporrebbe, a chi la sostiene, con variazioni determinate esclusivamente dai tempi con cui ne prevede la «scadenza».
Questa concezione asociale dello sviluppo delle forze produttive, trasformato in un progresso ridotto alla propria esteriorità tecnica, scisso dall'interesse materiale delle classi, è scientificamente sterile e socialmente, quando riesce a tradursi in sostegno a tale sviluppo, controrivoluzionaria. E' una concezione incapace di comprendere che le classi, determinate dal modo in cui si producono e riproducono, sono esse stesse una forza produttiva. Che tutta la divisione del lavoro poggia su fondamenta costituite innanzi tutto da quella sociale, dalla divisione del lavoro tra classe dominante e classe dominata. Che è stata la rivoluzione borghese, la distruzione spietata dell'aristocrazia, ultimo baluardo della divisione del lavoro feudale, il più grande «salto» nello sviluppo delle forze produttive mai avvenuto ed il cui successivo sviluppo tecnologico, sia pur spettacolare, non è che una conseguenza.
Qui, però, nonostante il peso che una tale concezione «asociale» dello sviluppo delle forze produttive ha avuto sui vani tentativi di «costruire» come su quelli di «predisporre» un partito rivoluzionario, la cosa ha avuto anche un suo peso nell'incomprensione della natura sociale dell'URSS, nella «urgenza» di giustificare in toto il proprio antistalinismo prima della crisi prevista al 1975.
Trotzky, invece, descrive di fatto un ben diverso, specifico rapporto tra forze produttive e sovrastruttura politica russe. Trotzky, sottolineando questa specificità, sulla cui base concepisce la Russia come «semiasiatica», ne spiega così la genetica debolezza della borghesia, della democrazia, confermando con ciò stesso la propria tesi sulla rivoluzione russa quale «rivoluzione permanente», conferma che Bordiga non coglie nonostante rappresenti una visione ben diversa alla sua.
Nonostante l'importanza di queste divergenze, dobbiamo qui restare fermi al nostro lavoro sulla Russia zarista, la cui natura sociale era per i fondatori del comunismo scientifico «dispotismo orientale», «asiatismo».
Da questo punto fermo noi partiamo con la consapevolezza materialistica che non sarà correggendo dottrine che risolveremo le questioni poste dallo stalinismo prima, dalla sterilità dell'antistalinismo poi. Punto fermo da cui dobbiamo partire per ricostruire, anche quella formazione economico-sociale che, restaurata dalla controrivoluzione stalinista, è risultata poi incomprensibile anche, e purtroppo, a chi aveva combattuto per la Rivoluzione d'Ottobre e chi l'aveva comunque sostenuta dall'estero. E' un compito non assolto dal movimento rivoluzionario russo, una pecca che non abbisogna di dimostrazioni dottrinali, perché è un fatto che la sconfitta subìta abbia lasciato il movimento rivoluzionario stordito, persino inconsapevole della portata stessa della sconfitta, ancor'oggi in ginocchio. Una pecca che se non è, e non può essere causa fondamentale della sconfitta, è certamente tra le cause quella fondamentale per cui il movimento rivoluzionario non ha saputo né potuto ancora rialzare la testa.
Sul piano del metodo il marxismo, è scienza, scienza esatta, non nel pedante senso che si attribuisce nelle medie inferiori distinguendovi la matematica dalla storia, ma perché verificata e verificabile, perché fissa storicamente i suoi sviluppi riflettendo la dinamica viva della realtà sociale che lo determina, esatto opposto dell'assolutizzazione idealistica. Ed è sul piano del metodo che l'«industrializzazione» della formazione economico-sociale zarista di fine secolo deve essere preliminarmente affrontata, per l'influenza che ha avuto sui rivoluzionari che l'hanno vissuta, come per l'industrializzazione che gli è succeduta.
Preliminarmente merita una precisazione, un'osservazione anche soltanto logica, il concetto di formazione economico-sociale. I concetti di rapporti di produzione, modo di produzione e formazione economico-sociale per il materialismo storico non sono che strumenti, logici ma strumenti, strumenti d'analisi. Ognuno di questi strumenti è un'astrazione determinata da più realtà concrete che, viceversa, ne rappresentano la rispettiva base materiale, pur essendo anche queste concettualmente astratte, o meglio un'approssimazione. E' invece elementare come su di un unico elemento, oggetto, fenomeno, ecc., non sia possibile fondare alcuna astrazione. Quindi far coincidere, confondere, il concetto di formazione economico-sociale, ad es. capitalistica, con una delle sue base materiali, tipo Francia del 1879, o Germania del 1861 piuttosto che Italia del 1945, significa negarne la sua natura strumentale, ridurlo ad uno degli oggetti piuttosto che adoperarlo quale «strumento» per la loro comparazione, per la comprensione degli aspetti che caratterizzano ognuno di questi.
Per la concezione materialistica della storia esiste infatti un preciso rapporto tra modo di produzione, rapporti di produzione e formazione economico-sociale. Come detto per il marxismo queste sono astrazioni, fondamentali ma comunque astrazioni determinate da una concreta, rispettiva base materiale comune, omogenea. Nel senso che ad ogni modo di produzione corrispondono determinati rapporti di produzione, o  s p e c u l a r m e n t e di proprietà, ed un altrettanto determinata, tipica, formazione economico-sociale. Se escludiamo i brevi momenti rivoluzionari che segnano il passaggio da un modo di produzione ad un altro, soltanto nella fantasia di un dilettante può esistere una società, una formazione economico-sociale cui non corrisponda il determinante modo di produzione. Se così non fosse, nella dispotica Russia zarista potrebbe anche essere esistito, anche se non manca chi lo ha risibilmente sostenuto, un «capitalismo di stato» ... di uno stato non capitalistico.
Concretamente, tornando al punto, per il marxismo il concetto di modo di produzione consente di astrarre da multiformi attività produttive, sia da quelle ancora legate a precedenti modi di produzione, (od a stadi di sviluppo barbarici), come da quelle che anticipano quelli a venire, l'attività che rappresenta il vero e proprio, tipico, baricentro sociale i cui soggetti entrano così in rapporti di produzione o di proprietà corrispondenti a tale modo di produzione. Cioè consente di identificare con un concetto preciso, esatto, tipico, una produzione sociale rispetto ad altre differenti produzioni sociali altrimenti indistinguibili, confuse nella generica idea di produzione. Tutti i rapporti sociali che storicamente su quella specifica base si erigono, quindi non solo quelli inerenti la produzione ed astraendo da quelli residuo di modi di produzione precedenti ecc., costituiscono una formazione economico-sociale a questa corrispondente ed esattamente tipica rispetto a quelle che si erigono su altre basi.
In breve, ad ogni divisione sociale del lavoro, borghesia-proletariato, patrizi-plebei, ecc., corrisponde una determinata formazione economico-sociale, cioè tipici rapporti sociali. Così mentre a determinati rapporti di produzione corrisponderanno determinati strumenti di lavoro, forze produttive caratteristiche di quel modo di produrre gli oggetti necessari alla sopravvivenza della popolazione che vi è sottomessa, alla corrispondente formazione economico-sociale apparterranno invece tutti gli strumenti, altrettanto indispensabili alla sopravvivenza sociale della medesima popolazione, quali le istituzioni civili e militari, sino alla coscienza che quella popolazione ha del proprio rapporto con la natura (la religione), come alla coscienza che ha di se stessa, dei propri interessi contro le altre popolazioni come contro gli altri individui, famiglie o ciò che vi corrisponde, appartenenti alla classe che nella produzione occupa la posizione opposta (la politica). Ad ogni formazione economico-sociale, a determinati rapporti di produzione, corrispondono dunque specifiche, tipiche istituzioni che rendono altrettanto specifico, tipico, lo Stato in cui quei rapporti sociali sono «riflessi», rappresentati, codificati e difesi con ogni mezzo soprattutto con la forza.
Ad ogni struttura corrisponde una, specifica, tipica sovrattura.
Soltanto fuori dal marxismo, nella rozzezza teorica o nella sottomissione ideologica, è possibile utilizzare le categorie marxiste per poi vanificarle con immaginifiche «non corrispondenze» che consentano allo zarismo di ieri di essere un capitalismo preferibilmente di stato, e magari all'Islam odierno, e non solo, di essere l'ideologia di un capitalismo altrettanto «di stato», qualifica questa che ne giustificherebbe, in un qualche modo, un'indipendenza di fatto della sovrastruttura dalla struttura che, negata al «capitalismo privato» lo rende sinonimo di «arretrato». Del marxismo non resterebbe così che un relativismo insulso in cui qualsiasi base sociale può produrre un «riflesso» identico a quello di una base sociale di altra natura, un relativismo in cui «struttura» e «sovrastruttura» non avrebbero neanche più ragione di denominarsi con termini che si autorichiamano.
Per il marxismo invece, nella vita normale di una società, cioè nei momenti in cui assolve alla funzione di assicurare, garantire, produzione e riproduzione della popolazione che la compone, ai suoi predominanti, determinati rapporti di produzione corrisponde un'altrettanto determinata formazione economico-sociale caratterizzata da un altrettanto determinato Stato, in cui si riassume, in cui si riflette, la società che apparentemente domina.
Senza equivoci, scientificamente, lo Stato corrisponde alla propria base sociale senza che sia possibile alcuna confusione con residui, avanzi o influenze di altri tipi che, in quanto tali, pur potendo essere anche caratterizzanti, non sono mai determinanti. Del resto, come per ogni altro organismo, lo Stato è determinato, distinguibile per la base sociale che lo nutre, per il modo in cui su quella base, si riproduce.
In "Salario Prezzo e Profitto" Marx, riferendosi al rapporto con cui la borghesia sembra retribuire totalmente la classe operaia osserva:

Questa falsa apparenza distingue il lavoro salariato dalle altre forme storiche del lavoro. Sulla base del sistema del salario anche il lavoro non pagato sembra essere lavoro pagato. Con lo schiavo, al contrario, anche quella parte di lavoro che è pagata appare come lavoro non pagato. Naturalmente lo schiavo per poter lavorare deve vivere, e una parte della sua giornata di lavoro serve a compensare il valore del suo proprio sostentamento. Ma poiché fra lui e il suo padrone non viene concluso nessun patto e fra le due parti non ha luogo nessuna compravendita, tutto il suo lavoro sembra lavoro dato per niente.
Prendiamo, d'altra parte, il contadino servo della gleba quale esisteva, potremmo dire, ancora fino a ieri in tutta l'Europa orientale. Questo contadino lavorava, per esempio, tre giorni per sé nel campo suo proprio o attribuito a lui, e i tre giorni seguenti eseguiva il lavoro forzato e gratuito nel podere del suo signore. In questo caso il lavoro pagato e quello non pagato erano visibilmente separati, separati nel tempo e nello spazio, e i nostri liberali si sdegnavano, scandalizzati dall'idea assurda di far lavorare un uomo per niente!
In realtà però la cosa non cambia, se uno lavora tre giorni della settimana per sé nel proprio campo e tre giorni senza essere pagato nel podere del suo signore, oppure se lavora, nella fabbrica o nell'officina, sei ore al giorno per sé e altre sei per il suo imprenditore, anche se, in quest'ultimo caso, la parte pagata e la parte non pagata del lavoro sono confuse in modo inscindibile, e la natura di tutto questo procedimento è completamente mascherata dall'intervento di un contratto e dalla paga che ha luogo alla fine della settimana. Il lavoro non pagato, in un caso sembra dato volontariamente, nell'altro caso sembra preso per forza. La differenza è tutta qui.

Qui Marx, in tutta evidenza, demistifica una presunta superiorità del rapporto di produzione capitalistico capitale-salario, dimostrando come non emancipi affatto l'«umanità», nutrendo la classe dominante con «lavoro non pagato», sostanza del «plusvalore», al pari dei rapporti di produzione precedenti e non con una inesistente creazione di valore. Marx non distingue, accumuna i diversi rapporti di produzione sulla base reale del «lavoro non pagato», per poi distinguerne gli effetti sociali, le apparenze sociali. Nei rispettivi rapporti di produzione o di proprietà, antico, feudale e capitalistico, il «lavoro sembra dato per niente», «sembra preso per forza» infine «sembra dato volontariamente».
«Questa falsa apparenza» è però un'apparenza sociale, concreta, non un apparenza ideologica. Nel caso capitalistico «la natura di tutto questo procedimento è completamente mascherata dall'intervento di un contratto e dalla paga», cioè dalla proprietà privata e conseguentemente dalla sue regole, da «un contratto», dal suo lato giuridico, inscindibile dai rapporti di produzione, essendo del resto la stessa forza-lavoro proprietà privata.
Qui la cosa ci interessa perché la «falsa apparenza» che maschera lo sfruttamento capitalistico funziona anche per gli altri modi di produzione, anche per quello «asiatico», dunque anche per la Russia zarista.
Prima di procedere dobbiamo però ribadire alcune «corrispondenze» indispensabili tra i vari fattori sociali identificati dal marxismo e lo Stato, che la concezione asociale dello sviluppo delle forze produttive invece disancora arbitrariamente.
Ai diversi rapporti e modi di produzione non corrispondono solo diversi tipi di combinazione di lavoro pagato e non pagato, ma anche diverse forme di appropriazione del lavoro non pagato. Nel modo di produzione capitalistico il plusvalore assume la forma di profitto, di "retribuzione", se così si può dire, del capitale anticipato. Fatta eccezione per quello «antico», in cui il lavoro schiavile determina una proprietà della "forza-lavoro", che almeno nella fase in cui è consumata nel processo produttivo possiede analogie con quello capitalistico di cui onestamente non sappiamo valutare la portata, negli altri modi precapitalistici, il cui processo produttivo è ancora agricolo e, soprattutto, i mezzi di produzione ancora detenuti dal produttore stesso, predomina la rendita fondiaria.
Se la società capitalistica si nutre di profitto così il suo Stato, compartecipe dello sfruttamento capitalistico tramite l'imposta, più propriamente «tassa». Parimenti nel modo di produzione asiatico in cui l'imposta, più propriamente «tributo», si nutre di rendita fondiaria. Quindi se da una parte lo Stato fonda la sua tipicità per il fatto stesso di «riflettere», «riassumere», un determinato modo di produzione e non altri, altrettanto tipico è il rapporto con cui la classe dominante un qualsiasi modo di produzione, non solo nutre se stessa ma anche lo Stato che ne è strumento di dominio.
Ricordiamo come nella Russia zarista precedente la «riforma», il rapporto grazie al quale si nutriva lo Stato era mediato dalla nobiltà terriera responsabile in solido del prelievo fiscale per lo Stato. Ricordiamo inoltre che questa nobiltà, che esercitava la propria signoria sulle «anime» piuttosto che sulla terra, era stata introdotta soltanto per consentire al centro autocratico di controllare un territorio sempre più ampio ed alimentata con la corvée, col lavoro che le «anime» dovevano prestare sulle sue terre. Questa mediazione era dunque piuttosto un accessorio dell'autocrazia piuttosto che una sua premessa; all'epoca della riforma del 1861 buona parte di questa «nobiltà», infatti, era talemente misera da risultare indistinguibile dai mujiki su cui esercitava sì la «signoria» ma non il monopolio, dato che anche lo Stato, lo ricordiamo, utilizzava le «anime» per lavori collettivi, militari e civili.
Il rapporto, grazie al quale le «anime» mantenevano tutta la classe dominante, appariva concretamente come un «prelievo» di derrate alimentari, un gigantesco «rastrellamento», dati gli sconfinati spazi russi, di pluslavoro sotto forma di «plusprodotto», "plus" persino rispetto ai sofisticati bisogni della corte zarista e di tutto il suo codazzo nobiliare. Da questo lato dello «scambio» che sostanzia la divisione del lavoro russa, l'ammasso di prodotti agricoli ha un suo «valore d'uso» sinché la classe dominante se ne può nutrire, oltre questo limite può averne solo come oggetto di scambio. Nella Russia zarista la nobiltà terriera poteva accedere direttamente al commercio, almeno quella che possedeva una quantità tale di terra da consentirglielo, nonostante fosse presente anche uno specifico strato mercantile che non riuscirà mai ad aver un peso sociale, un'autonomia, paragonabile a quello delle monopolistiche corporazioni medievali.
In ogni caso con la trasformazione commerciale del «plusprodotto» in altri «valori d'uso» e/o «mezzi di scambio», questo si trasforma infine nella «ricchezza» precapitalistica della classe dominante, nella sua «rendita fondiaria», nel suo «plusvalore».
Dopo la «riforma» il sopradetto rapporto non è più mediato dalla nobiltà terriera che, nonostante gli indennizzi che lo Stato le anticipa, decade di fatto socialmente. Il rapporto, ora mediato dall'obscina posta al centro del prelievo, non muta sostanzialmente i termini dello scambio sociale, almeno per quanto riguarda il lato in cui è collocata la classe dominante. Tale rapporto comunque diventa più efficiente, non foss'altro perché ne viene esclusa la nobiltà terriera il cui indebitamento verso lo zar testimoniava quanto poco lo fosse precedentemente, e più gravoso dato che con la riforma fiscale vera e propria vengono addossati ai nuovi organismi periferici dell'amministrazione, Zemtvo (basato sulle locali obscine), i carichi fiscali per il mantenimento delle istituzioni riformate, scuola, sanità, esercito.
Tra le novità introdotte, soprattutto il prelievo in forma monetaria indurrà anche i marxisti a sopravalutare gli effetti che tale riforma avrebbe avuto. La speranza era naturalmente che, per poter pagare le tasse in forma monetaria, le «anime» sarebbero state costrette a «vendere» la propria capacità di lavoro trasformandola in «forza-lavoro», mercificandola per denaro. Il processo in parte avvenne ma non nella misura sperata. La misura limitata in cui avvenne, fu determinata dall'altrettanto limitata necessità di forza-lavoro del capitale piuttosto che dalle necessità di una immensa, potenziale, forza-lavoro.
Concretamente le «riforme» avevano alzato la quota di «lavoro non pagato» di cui si appropriava «la classe dominante» che, come dimostra la cassata «corvée» per il pomescjki, in Russia finiva col coincidere con l'autocrate, con l'effettivo, unico proprietario terriero, dimostrando come il «tributo» addossato ai contadini non fosse una partecipazione alla rendita fondiaria prelevata da un'inesistente feudalità, ma direttamente rendita fondiaria.
Restando su questo lato dello scambio sociale, alla raccolta della rendita fondiaria, al prelievo si contrappone l'assolvimento dei compiti statali ceduti, ossia protezione e difesa del raccolto agricolo delle «anime». Non esiste Stato che non basi la propria legittimazione sulla difesa del territorio e della propria economia e, per posizione geografica, la storia russa è storia di sottomissione e resistenza ad invasioni barbariche. La stessa popolazione grande-russa, il nucleo fondante l'impero russo, è originaria del sud della Russia ma ha dovuto adattarsi al clima più freddo, al terreno più arido della Moscova per tentare di sfuggire a tali invasioni. Il primordiale compito difensivo si è poi evoluto sino a coincidere, comunque a diventare, un compito di conquista anche a causa dell'incremento demografico che, se da un lato rendeva necessario un territorio sempre più ampio, dall'altro, essendo un basilare elemento di potenza statale, ne rendeva possibile la soluzione dilatando comunque la rendita fondiaria, riproducendo il proprio modo di produzione.
Questo «meccanismo» aveva finito col porre l'autocrazia russa in un conflitto permanente con tutti gli Stati e con le popolazioni confinanti animate da non diverse ambizioni territoriali. La «sindrome dell'accerchiamento», rintracciabile in tutto lo stalinismo, come l'ideologia sovranazionale panslavista (ammesso che per un'autocrazia si possa parlare di nazionalità), hanno loro specifiche, asiatiche, radici nella storia sociale russa.
Dall'altro lato della divisione del lavoro, dello «scambio sociale» russo stavano i «contadini», o meglio, le «anime». Come giustamente osserva Bordiga, si tratta di rappresentanti un'umanità ancora intenta a «raspare la terra» nel tentativo, spesso infruttuoso, di alimentarsi. I lunghi inverni russi condannavano quest'umanità raspante ad una vera e propria, proverbiale inedia. Le poche giornate, poco meno di duecento, dedite alla coltivazione del proprio frammentato fazzoletto di terra, limitavano comunque la quantità di terreno individualmente coltivabile. Sono proprio queste condizioni sfavorevoli ad alimentare l'attaccamento delle «anime» al solidarismo primitivo, alla obscina, ma la «riforma», come rileva Trotzky sempre in "1905", non è senza conseguenze per la campagna, quindi per l'obscina stessa.

Il contadino già da tempo ha imparato a non pensare alla scorta di frumento per le annate magre. I nuovi rapporti di mercato lo obbligano a convertire le proprie riserve in natura e le eccedenze della produzione in moneta sonante, subito inghiottita dal pagamento dei canoni e dal fisco. La convulsa corsa al rublo costringe il contadino ad una coltura di rapina senza la necessaria concimazione ed una lavorazione razionale della terra. L'immediata carestia con cui la terra si vendica del suo esaurimento, si abbatte come una devastatrice calamità naturale sulla campagna priva di riserve.

Dovremo tornare sull'opera di Trotzky, qui basti osservare come rilevi i «rapporti di mercato», la «corsa al rublo», quale elemento estraneo alla campagna, in cui anzi, non solo non diffonde alcun metodo capitalistico, alcuna «accumulazione», ma come comporti la distruzione dell'unico «mezzo di produzione» relativamente disponibile in Russia, la terra. Il risultato è la «pauperizzazione» della campagna, la distruzione del necessario come di quelle eccedenze che le buone annate comunque producono per rare che possano essere. La miseria delle campagne è indirettamente provocata, indotta dall'industrializzazione cui la «riforma» ha aperto la via ma in nessun modo può essere paragonata, e tanto meno confusa, con la «miseria capitalistica» che, in quanto tale colpisce non la terra, ma il contadino «proletarizzandolo», cioè privandolo della terra. Terra che invece la riforma aveva conservato all'obscina in cui il contadino era costretto anche "legalmente".
In una lettera del 1891 a Nikolaj Danielson, curatore della prima traduzione del Capitale in russo e più noto con lo pseudonimo di Nikolaj-On, Engels, dopo aver illustrato ciò che per lui non è che una sorte "europea" per le «anime» russe, conclude:

Da voi, c'è ancora da vincere la resistenza dell'obscina (sebbene, a parer mio, questa sia destinata a perdere ogni giorno più terreno nella lotta incessante col capitalismo moderno); e c'è quella risorsa dell'affitto di terre di grandi proprietari fondiari, che la vostra del 1 maggio descrive - un mezzo per assicurare un plusvalore al proprietario e, insieme, permettere al contadino di vegetare come contadino. Per quanto posso giudicarne io, gli stessi kulaki preferiscono tenere nelle grinfie il contadino come sujet à exploitation, che rovinarlo una volta per sempre e portargli via la terra. Perciò è mia impressione che anche il contadino russo, ove non sia richiesto come lavoratore nelle fabbriche o in città, stenterà a morire; che prima che muoia, bisognerà ucciderlo più volte.

Qui, di passaggio, possiamo rilevare un utilizzo materialmente «concreto» del termine plusvalore, la descrizione del kulak altrimenti ritenuto un «borghese», la «previsione» che il capitalismo riuscirà ad imporsi anche sulla campagna russa. Per i cultori di «previsioni» ricordiamo l'umiltà stessa di questa «previsione», («a parer mio») come la contemporanea sottolineatura della condizione che sola possa dar corso alla «previsione» stessa, che possa costringere l'obscina al crollo: la proletarizzazione del contadino, «portargli via la terra», rendendo così irreversibile, «ove richiesto», l'auspicata trasformazione del contadino in «lavoratore» altrimenti ... «bisognerà ucciderlo più volte». Secondo Trotzky di qualche lustro dopo, che descrive una campagna per la quale la «moneta» non era affatto un «mezzo di scambio», ma nient'altro che un'ulteriore vessazione su cui poteva prosperare solo l'usura, il kulak, il contadino doveva ancora morire, proletarizzarsi.
Quindi l'obscina era costretta a vegetare, a sopravvivere a se stessa, senza che alcunché potesse sostituirla nei compiti solidaristici che essa stessa diveniva progressivamente impossibilitata ad assolvere, senza che alcunché fosse in grado di seppellirla definitivamente, ed in ogni caso durante l'industrializzazione zarista, indiscutibilmente, sia lo zarismo che l'obscina galleggiavano su di una campagna nelle condizioni descritte sia da Engels che da Trotzky.
Il punto è ora comprendere cosa rappresentasse la rendita fondiaria dal lato opposto dello scambio sociale in questione, dal lato delle «anime».
Il rudimentale processo produttivo, agricolo, è qui pienamente in possesso del mujiko e totalmente dipendente dalla natura, i cui andamenti stagionali determinano l'esito del raccolto. Qui lo scopo della produzione è unicamente la sopravvivenza alimentare del produttore ed è rappresentato da «valori d'uso», da «beni» ovviamente di genere alimentare. Un bene, qualsiasi bene, ha un valore d'uso sintanto che può essere «usato» per soddisfare il bisogno che se ne ha, di qualunque natura esso sia. Quando un tale «valore d'uso» è prodotto in una quantità tale da eccedere il bisogno che se ne ha, la quantità eccedente tale bisogno perde ogni «valore». In breve qualsiasi mujiko la natura avesse posto in grado di produrre, supponiamo segale, oltre le esigenze della propria famiglia e della produzione successiva, ebbene tale mujiko sarebbe di fatto in possesso di un raccolto che per la sua parte eccedente sarebbe senza valore alcuno. La cessione di questa quota in cambio della protezione del raccolto non sarebbe costata di fatto niente al mujiko che, a differenza dell'autocrate non poteva disporre né di una corporazione mercantile né della possibilità di venderlo, essendo impossibilitato al commercio in proprio delle proprie «eccedenze» non dal diritto, ancora consuetudinario, ma soprattutto dal proprio barbaro isolamento.
Non c'è ragione di pensare che originariamente, leggendariamente, il rapporto di sudditanza del mujiko non si basasse su di un simile scambio favorevole o nell'illusione che potesse esserlo. Ciò che conta però, è comprendere come i casi in cui un tale scambio finisca per diventare sfavorevole al produttore, per erodere la quota necessaria alla sopravvivenza della famiglia e della sua miserabile produzione agricola, divengano addebitabili alla natura sfavorevole, alla siccità ecc. ecc., mentre la quota ceduta in cambio della «protezione» statale non diventa per questo meno necessaria, utile, ed essendo di fatto precondizione del raccolto, santificata, elevando il despota a «piccolo padre» secondo un processo ideologico grazie al quale, ad esempio, i pellerossa, più liberi non "disponendo" di un Stato e più ricchi per natura, consideravano più concretamente sacro il bisonte.
La straordinaria ignavia, l'incredibile, gratuito attaccamento al despota, che tanto scandalizza i moderni intellettuali a gettone, ha dunque una spiegazione materialistica, rintracciabile solo negando il loro finalismo progressista, solo riconducendo la natura sociale della Russia zarista alla sua natura asiatista.
Trotzky presovietico aveva colto comunque la direzione del movimento, il binario «asiatico» in cui era costretta la società zarista, confermando una caratteristica evidenziata da Marx, per l'altrettanto asiatica Cina, con una frase che Bruno Maffi curando la pubblicazione di "India Cina Russia", ha posto in apertura del "Preludio cinese":

Ci si ricorderà che la Cina e i tavoli si misero a ballare,
quando il resto del mondo sembrava ancora fermo,

pour encourager les autres.
Il Capitale, Libro I

L'idea che ciò che si è imposto come «asiatismo» sia statico è un'idea premarxista e si basa essenzialmente sulla constatazione, borghesemente incredula, che possa esistere un "mondo" senza proprietà privata. Per il marxismo la «staticità» asiatica non è una staticità esistenziale, monastica, ma precisamente una staticità «sociale». E' falso che a questa debba corrispondere una staticità tecnica o culturale e tanto meno politica. Non a caso la geometria, che i greci portarono alla massima astrazione, sorse nell'Egitto dei faraoni, la cui natura asiatista è universalmente riconosciuta, dalla necessità di canalizzare le piene del Nilo e dalla misurazione dei terreni da ripartire ed irrigare. Tutta l'attività intellettuale come tutto il lusso erano qui socialmente ristretti ma necessariamente «statali», quindi anche gli specialisti che sviluppando la tecnica idraulica, edile e militare, rendevano incomparabile la «potenza» egiziana con quella delle barbare popolazioni limitrofe.
Trotzky comunque, sempre in "1905", porge altri più attuali esempi.

E' impossibile paragonare la Pietroburgo o la Mosca attuali alla Berlino o alla Vienna del 1848, ed ancora di più alla Parigi del 1879, che non si sognava nemmeno di poter disporre delle ferrovie e del telegrafo, e riteneva una manifattura di 300 operai una grandissima impresa.

E, riferendosi alle allora stupefacenti statistiche con cui ancor oggi viene illustrato il «decollo» dell'industrializzazione zarista, Amadeo Bordiga, che ha presente non solo il lavoro di Trotzky ma anche le mirabolanti statistiche staliniste, ne coglie in qualche modo il sottostante significato:

Questi indici nella loro seriazione indicano che lo sviluppo è ingente e continuo, ma per intenderli va tenuto conto che essi non possono esprimere in modo diretto la maggiore o minore distanza "storica" da una completa forma borghese. Ad esempio la Russia zarista costruì una imponente lunghezza di ferrovie, e tuttavia Francia ed Inghilterra erano già compiutamente uscite dalla rivoluzione borghese quando non avevano ancora il primo chilometro di binari.
Le forme tecniche della produzione si diffondono prima delle forme politiche e giuridiche, e la Russia, paese in ritardo con l'uscita dal medioevo, non poteva, pure serbando rapporti giuridici e politici immutati, non risentire della evoluzione subita dalla produzione manifatturiera e dagli scambi nella prossima Europa. Prima ancora di allacciarsi ai paesi vicini collo scambio, un paese con diversa organizzazione sociale ma che sia una grande potenza, si incrocia con essi ai fini degli stessi conflitti politici e militari.

Tralasciamo pure il fatto che Bordiga includa pari pari la Russia nel «medioevo», come pure sulla sua «distanza» da «una completa forma borghese», come se la Russia lo fosse stata incompletamente. Bordiga, nel caso russo, deve constatare una diffusione delle «forme tecniche» precedente quella delle «forme politiche e giuridiche», a causa dei «conflitti politici e militari». Bordiga tratta la «tecnica» descrivendola come una «forma», sottintendendone una sua presunta «sostanza» di cui non precisa i termini. In Bordiga molte delle questioni poste sia dallo stalinismo, sia dallo sviluppo capitalistico, vengono risolte in questa distinzione tra forma e sostanza in cui si smarrisce l'unità, che ne è anche negazione.
Per il marxismo il capitale può avvalersi di una tecnica, sia pure una «forma tecnica», solo grazie alla semplice forma giuridica della proprietà privata che ne è suo elemento inscindibile, storicamente e naturalmente.
Storicamente. Perché la borghesia assume il potere a metà del seicento in Inghilterra, quando ancora la divisione del lavoro produttivo è artigianale. La manifattura infatti non è che un raggruppamento di artigiani ancora in «possesso» dei mezzi di produzione, non è ancora una fabbrica, un'industria, in cui l'ormai divenuto operaio è piuttosto posseduto che possessore dei mezzi di produzione. Trattando dell'industrializzazione di una qualsiasi area, come qui noi quella Russa, non si può ne si deve dimenticare che la borghesia conquista il potere prima, non dopo, e dunque tanto meno grazie alla rivoluzione industriale, all'industrializzazione. Se proprio si vuol trovare, scolasticamente ed ad ogni costo, un presupposto, storicamente è piuttosto la proprietà privata presupposto dell'industrializzazione e non viceversa.
Naturalmente. Perché per la natura stessa del capitale, della sua accumulazione oltre il livello neonatale, questa sarebbe stata irrealizzabile senza che ne fosse garantito al proprietario, all'accumulatore, l'esclusivo diritto di proprietà, per legge, senza che questa fosse gestita da una magistratura e da una forza pubblica "indipendenti", insomma senza uno Stato reso capitalistico.
Quindi quando Bordiga afferma che la «forma tecnica», insomma la tecnica, può precedere le «forme politiche e giuridiche», come se fosse una cosa ovvia, comunque spontanea, il cui veicolo necessario sarebbe ed è stato, qui, non lo «scambio» ma «gli stessi conflitti politici e militari», si limita ad illustrare proprio ciò che deve essere spiegato, cioè come e perché sia stato possibile all'industria russa diffondersi prima di quelle che ne sono state storicamente le genetiche basi sociali, o addirittura senza di queste.
In realtà qui «scambio» e «conflitti politici e militari» sono certo cose diverse ma non contraddittorie. Qui i «conflitti politici e militari» russi sono causa dell'insorgenza di un nuovo bisogno, della necessità di «valori d'uso» che lo stato russo non possiede, solo in quanto tali conflitti hanno luogo con potenze capitalistiche il cui sviluppo delle forze produttive è più elevato di quello russo. Sempre in "1905" Trotzky fa risalire quest'insorgenza all'infanzia dell'autocrazia russa:

La necessità di creare una solida industria non fu avvertita né dall'artigiano del villaggio né dal grande mercante, ma dallo Stato. Gli svedesi costrinsero Pietro a costruire la flotta ed a riorganizzare l'esercito su basi nuove. Ma diventando più complessa la sua organizzazione militare, lo Stato di Pietro veniva inevitabilmente a cadere sotto la diretta dipendenza dell'industria delle città anseatiche, dell'Olanda e dell'Inghilterra. La creazione di un'industria manifatturiera nazionale che rifornisse l'esercito e la flotta, divenne allora un compito essenziale della difesa dello Stato.
Prima di Pietro non s'era mai parlato di produzione industriale. Dopo di lui si contano già 233 imprese statali e private di notevoli dimensioni: miniere, arsenali, fabbriche di panni, di tele, di vele, ecc.
....
Da noi nella Moscovia, l'industria manifatturiera, importata dall'occidente, non trovò i liberi artigiani e fu in tal modo costretta a servirsi del lavoro di contadini-servi.

Nonostante le dimensioni del fenomeno non fossero neanche paragonabili a quelle che si produrranno a fine '800, dunque il fenomeno non era nuovo, anzi, addirittura un'industrializzazione senza lavoro salariato, aspetto su cui si sofferma anche Bordiga. Ora, se non si vogliono annoverare gli ukaz di Pietro il Grande tra le misure capitalistiche, si deve pur riconoscere come l'incaricato, o meglio, il costretto conduttore di tali manifutture non fosse né potesse essere un capitalista. Entrambi quindi dimenticano che non è solo l'assenza di lavoro salariato a caratterizzare quest'industria, questa manifattura, ma anche la contemporanea assenza del capitalista, l'assenza di rapporti di produzione capitalistici. Questa constatazione lapalissiana non è però priva di conseguenze perché spiega come questa industria non si sia evoluta, non ne abbia prodotto nessun altra. Un'industria priva dello specifico meccanismo di accumulazione capitalistica è infatti priva anche di quel processo di razionalizzazione, di sviluppo tecnico indotto dall'accumulazione stessa, sviluppo che non produce solo «macchine» ma anche e soprattutto divisione del lavoro, nuova base sociale per un ulteriore, specialistico, sviluppo tecnico. Quindi, nonostante l'oggettività dell'ignavia contadina consentisse all'autocrazia di acquisire, grazie allo strato burocratico-nobilare, i frutti dello sviluppo tecnico altrui, l'assenza di rapporti di produzione capitalistici ne impediva invece il loro autonomo sviluppo, ne impediva gli effetti rivoluzionari che avevano invece avuto sul medio evo europeo. Anche concedendo come ammissibile l'ipotesi che quella di Pietro il Grande fosse un'industria in nuce, quindi incapace di comprovare il fenomeno indicato, resterebbe comunque come una sua prima indiscutibile evidenza.
Se la flotta, l'industria navale russa, fu il primo insorgente «bisogno» determinato dall'elemento estraneo alla Russia, cioè da «gli stessi conflitti politici e militari», alla fine '800 possiamo riassumere invece il nuovo «bisogno» alla voce «industria pesante» altrettanto russa, in cui è inclusa la ferrovia, l'artiglieria, ecc., essendo le priorità russe logistiche, comunicazioni, trasporto truppa e materiali, al fine di rendere ancora utilizzabile la propria superiorità demografica in tempi militarmente utili.
Tale «bisogno» non può che essere soddisfatto con uno «scambio», sia pure non piattamente commerciale, col detentore del «bene» di cui si necessita. Da un lato l'autocrazia russa può accedere ad un tale scambio soltanto perché esiste un mercato capitalistico che ha già prodotto le potenze con cui è costretta a misurarsi. Un mercato in cui non solo i «beni di consumo» sono merci ma anche il capitale, cioè anche i mezzi di produzione che hanno prodotto quelle merci, sono resi essi stessi merce. D'altro lato, senza questo mercato la stessa rendita fondiaria russa non avrebbe mai potuto avere la forza di spingere l'autocrazia ai livelli di potenza espressi nell'800, la produzione di grano estorta non avrebbe infatti mai potuto essere scambiata, venduta, senza mercati in cui la produzione agricola si riduceva via via a vantaggio di quella industriale. Per esempio, in Inghilterra la vittoria del libero scambio industriale, l'abolizione delle «leggi sul grano» contro il protezionismo agrario, poté essere conseguita anche, se non soprattutto, grazie al grano di Nicola I. E' ancora un aspetto del rapporto «simbiotico» arretratezza-sviluppo, su cui si è poggiata la politica sintetizzata da Marx nel concetto di bastione della reazione europea, sul quale non è possibile alcuna riflessione senza comprendere la natura sociale dello zarismo, del suo lato non capitalistico.
Sempre in "1905", Trotzky afferma:

Leva possente dell'industrializzazione del paese furono le ferrovie, la cui costruzione fu promossa naturalmente dallo Stato. La prima linea ferroviaria russa, la Mosca-Pietroburgo, fu inaugurata nel 1851. Dopo la disfatta di Crimea, nella costruzione della rete ferroviaria, il governo cede il posto all'iniziativa privata. Lo Stato però, come un instancabile angelo custode, si pone alle spalle degli imprenditori, concorre alla formazione di capitale azionario ed obbligazionario, si fa garante dei profitti e dissemina il cammino degli azionisti di privilegi e di allettamenti. Durante il primo decennio successivo alla riforma contadina nel nostro paese furono costruite 7.000 verste di strade ferrate, nel secondo decennio 12.000, nel terzo 6.000 e nel quarto più di 20.000 nella Russia europea, circa 30.000 in tutto l'impero.
Negli anni '80, ed ancora di più negli anni '90, quando Vitte si fece banditore di una concezione di capitalismo autocratico-poliziesco, riprende nuovamente la concentrazione delle ferrovie nelle mani dello Stato.

Bordiga, definendo però la natura sociale dello zarismo «feudalesimo di stato», non contesta il ruolo che Trotzky attribuisce allo Stato nell'industrializzazione zarista. Non può farlo neanche Alexander Gerschenkron, uno dei più blasonati storici dell'industrializzazione europea, che arriva a considerare il «bilancio statale» russo come il «fattore sostitutivo» del ruolo che i landlord hanno svolto in Inghilterra e che le banche d'investimento hanno avuto, sostiene non solo lui, in Germania, nelle rispettive industrializzazioni. Per quanto ci riguarda riteniamo che questa opinione consideri lo Stato russo alla stregua di una categoria soprastorica, senza specifiche basi sociali, opinione su cui dovremo pur tornare, ma nonostante tutto resta indiscutibile che lo Stato sia stato comunque l'agente, se non il motore dell'industrializzazione zarista, cioè il soggetto dello «scambio» summenzionato.
Grazie a questo riconosciuto ruolo possiamo quindi semplificare, astraendo dagli aspetti finanziari e politici che gli sono subordinati, riducendo tutti i rapporti che un tale «bisogno» determina ad un unico esemplare scambio tra il capitalista, produttore dei mezzi di produzione, e l'acquirente, lo Stato russo industrializzatore. Un tale scambio sarebbe qui un semplice scambio denaro-merce i cui presupposti sono rispettivamente, per il venditore capitalista il denaro precedentemente impiegato per la produzione della merce mezzi di produzione (D-M), per l'acquirente Stato russo la trasformazione del plusprodotto in denaro, nella rendita (Mr-Dr, abbiamo aggiunto una "r" solo per distinguerne la provenienza ma, naturalmente, ciò è irrilevante per lo scambio in questione). La merce con cui lo zarismo acquirente si procura il denaro, Mr, cade più o meno immediatamente nel consumo e comunque diventa ininfluente, inesistente ai fini di questo scambio (anche se, essendo venduta sul mercato capitalistico, cioè all'estero, non possiamo non osservare come finisca col consentire all'industria di mezzi di produzione esportatrice di raggiungere altezze, economiche e politiche, che la compatriota industria di beni di consumo, l'agricoltura, non gli avrebbe consentito mai). Tale denaro, Dr, invece scambiandosi con M, diventa per il venditore D', denaro incrementato rispetto alla quantità impiegata per produrre M, con cui chiude la circolazione della quota di denaro che aveva immesso nella circolazione accumulando capitale (D-M-D'). Sul lato russo di questo scambio, quello dell'acquirente, invece il denaro utilizzato per l'acquisto, Dr, non è che l'equivalente della merce acquistata, M. Per quanto possa ripetere il ciclo con quote incrementate di Dr, nonostante acquisti volumi di M altrettanto incrementati, ne otterrà soltanto di altrettanto incrementati, equivalenti.
Se si vuol sostenere che lo zarismo, con cui ha coinciso lo Stato russo, abbia prodotto un qualche capitalismo bisogna pur ammettere che il termine di questo scambio non sia per lo zarismo che l'inizio di un altro, in cui impiegando i mezzi di produzione acquistati ed assumendo il ruolo di venditore dei beni da questi prodotti, lo zarismo incrementi a sua volta la quota di denaro immessa nella circolazione accumulando capitale.
Noi critichiamo, contestiamo anche l'ipotesi «capitalismo di stato» zarista, che per la verità nessun marxista dell'epoca ha mai posto dato l'enorme peso dello Stato in Russia. In quest'ultimo caso infatti bisognerebbe supporre che lo stato zarista ceda, in un qualsiasi modo, i mezzi di produzione che ha realmente acquistato, o come nel concreto capitalismo di Stato, produca con questi altri mezzi di produzione per acquirenti borghesi a capitalisti. Con l'esistenza di questi, tutta la questione perderebbe di senso, ed il regno dello «knut» sarebbe stato, chissà mai da quando ed in quale modo, capitalistico. Lo Stato zarista invece, cosa che effettivamente fece, come sotto Pietro il Grande, poteva surrogare i capitalisti, assolvendo le funzioni di direzione del processo produttivo con la propria burocrazia, come «importare» con i «capitali» anche i «capitalisti» (o viceversa), ai quali poteva garantire, essendo il loro predestinato "consumatore finale", l'esclusione da ogni rischio di mercato, con un profitto garantito, che in quanto tale è più propriamente una retribuzione, ed infine un certo qual rispetto della «proprietà privata», i «privilegi» di cui riferisce Trotzky, tutto graziosamente concesso. Naturalmente i due casi sono suscettibili di sviluppi divaricanti, anche se, considerati allo stato nascente, all'atto del loro sorgere, in realtà non si differenziano essendo, di fatto, il burocrate come il "capitalista", figure subordinate, direttamente o indirettamente retribuite ad uno scopo altrui.
Un inciso su questo aspetto della questione.
Entrambe le figure assolvono il compito, con maggiore o minore competenza, di combinare nel processo produttivo forza-lavoro e mezzi di produzione, compito che i sostenitori del capitalismo di stato amano definire «funzione del capitalista» anche quando non vi è alcun rapporto di produzione, cioè alcun rapporto di proprietà, capitalistico. Anzi assumendo l'assolvimento di tale compito quale indicatore per dedurne l'esistenza di rapporti di produzione capitalistici, indipendentemente da qualsiasi rapporto di proprietà bastando loro l'esclusiva proprietà statale. E' invece ovvio che, anche nel capitalismo, il combinare forza-lavoro con mezzi di produzione, dando luogo al processo produttivo, attiene alla natura, alla qualità delle due merci. Non sorprende quindi che nelle miniere di qualsiasi materiale si faccia estrarre alla forza-lavoro, non vengano impiegati professori universitari. Ad ogni mezzo di produzione corrisponde un tipo, una qualità di forza-lavoro e, la sua combinazione con tali mezzi attiene al processo lavorativo, non al processo di valorizzazione che caratterizza in senso capitalistico tutto il processo produttivo. Il caso dell'industria navale di Pietro il Grande è esemplare. Una tale industria combinava mano d'opera servile con le materie prime ed i mezzi di produzione dell'epoca assolvendo tecnicamente quella che nel capitalismo è la funzione del capitalista, ma che nella Russia non capitalistica era assolta da un nobile a pieno titolo. L'assolvimento quindi di una tale funzione non caratterizza affatto socialmente un bel niente, dato che anche sotto il tanto sospirato comunismo bisognerà pur combinare capacità lavorativa con mezzi di produzione. L'incomprensione di questi aspetti elementari del marxismo è veramente sconcertante, pari soltanto alla presunzione con cui è stata contrabbandata come riflessione su una realtà di cui è perso ogni riferimento materiale
Fine dell'inciso.
Anche nel confronto con la figura dell'effettivo capitalista estero, il "venditore" del nostro supposto unico scambio, questo presunto, solo potenziale, capitalista evidenzia tutti i suoi limiti proprio nell'attività che lo rende tale. Anche volendo astrarre dagli aspetti giuridici, fondamentali essendo un qualsiasi scambio un rapporto tra proprietà , nel rapporto di scambio col primo, in quanto acquirente, lo Stato zarista remunera il capitalista venditore nel prezzo d'acquisto dei mezzi di produzione importati, condizionandolo solo e quanto è possibile ad un qualsiasi cliente. Nel secondo caso invece remunerandolo prima, e dunque, contrariamente ad ogni apparenza, subordinandoselo come e quanto gli sarebbe impossibile nel primo caso.
In sostanza, non potendo privarsi dei mezzi di produzione, di cui abbiamo supposto essere costituiti tutti i suoi acquisti, allo Stato zarista non resta che consumarli, come di fatto avvenne per la gran parte dei mezzi di produzione importati. Ma per consumarli capitalisticamente non esiste altro modo che farli funzionare, che fargli produrre, direttamente od indirettamente, non soltanto merci ma anche profitto. Questa del resto non è una condizione, questa è la condizione senza la quale non può esistere produzione capitalistica cui, si ammetterà, quella «capitalistico statale» non può che appartenere. Al termine della produzione lo zarismo avrebbe comunque ricavato soltanto una massa trasformata di merci precedentemente rappresentata in Dr, dunque arricchendosi finalmente di nuovi prodotti raggiungendo lo scopo dello scambio, ma per realizzarla come incremento di valore, cioè accumularla come capitale, la merce prodotta dovrebbe essere venduta restituendo il capitale in Dr', nella sua forma naturale, non transitoria ed indipendente da quella di qualsiasi merce, in denaro. E' però ben noto, ed unanimemente accettato, come tale produzione fosse, o finisse per essere prima o poi utilizzata, consumata dallo Stato (come è altrettanto noto che lo fosse solo in costante perdita, rendendo superflua ogni ipotesi contraria). Ed essendo altrettanto noto come niente e nessuno possa vendersi, tantomeno «scambiare» qualsivoglia cosa con se stesso, la valorizzazione di Dr in Dr' resta comunque irrealizzabile. Alla possibile obiezione, sedicente marxista, che avremmo trattato la questione soltanto in base alla circolazione delle merci e non della loro produzione, osserviamo che l'obiezione sarebbe a dir poco schematica, essendo ovvio che se dalla circolazione delle merci, quella che include anche il processo produttivo con tanto di forza-lavoro, materie prime, ecc., non può scaturire alcuna valorizzazione come sopra detto, è perché non può scaturirne alcuna in quello stesso processo produttivo e che dunque, pur avendo percepito formalmente un salario, la forza-lavoro utilizzata non è stata consumata produttivamente, che ciò che gli si è contrapposto nella produzione non si è comportato come se fosse, perché in realtà non era, capitale. In ambito vetero antistalinista e stalinista, la barbarie, la brutalità con cui questa contrapposizione è stata attuata a spese dei lavoratori viene percepita come effetto e dimostrazione dell'«accumulazione originaria» russa, contraddicendo però sé stessi, cioè dando come «originario» ciò che invece giunge già «originato» tramite venditore nel qui supposto unico scambio, e come il «peccato» giunge incolpevolmente a noi, così il capitale sarebbe comunque, ed in ogni caso, giunto ai russi già «originato».
Possiamo a questo punto trarre almeno alcune conseguenze. Da un lato lo Stato asiatista, per il quale questo rapporto non è che un rapporto di potenza, è costretto di per sé al ruolo di cliente del capitalismo internazionale che ne dota la potenza politica e militare di strumenti adeguati ad elevarla ad altezze altrimenti inimmaginabili per qualsiasi Stato precapitalistico senza, per questo, modificarne i rapporti di produzione. Dall'altro lato, quello del mercato capitalistico che ha prodotto il «venditore», il rapporto appare però come «acquisizione» di un nuovo mercato, come allargamento del mercato stesso, come «esportazione di capitali», determinando un livello nella produzione di mezzi di produzione superiore a quello che la domanda della preesistente industria di beni consumo avrebbe consentito, rinviando la «crisi», rafforzando il processo di concentrazione monopolistico, rafforzando lo strato di «aristocrazia operaia» del paese esportatore senza, per questo, diffondere capitalismo. Anzi, bloccandone il pur possibile sviluppo, assorbendone ogni risorsa al solo scopo di conservare il dispotismo dello stato-cliente come quello del proprio capitalismo monopolistico.
In tutti i casi in cui si determina un simile rapporto, rappresentandoselo nei paesi esportatori, come «estensione del capitalismo», come «sviluppo delle forze produttive», come «diffusione mondiale del capitalismo», equivale a sostenere, il proprio o l'altrui, imperialismo con l'altrui dispotismo.
In tutti i casi in cui si determina un simile rapporto, rappresentandoselo nei paesi importatori, come «sviluppo capitalistico», è un errore, un errore di sottovalutazione della forza e del radicamento sociali del dispotismo, di sottovalutazione di un nemico.
Soltanto la classica posizione di Marx, includendo la Russia zarista nel modo di produzione asiatico, consente un'autonomia teorica, un'indipendenza politica a fronte di tali processi, consentendo di spiegare materialisticamente l'ignavia del mujiko, consentendo di rilevare nella stessa classe dominante russa, l'esistenza di figure nobiliari specifiche rispetto a quelle medievali (vedi precedente nota Russia Zarista: nobiltà burocratizzata e burocrazia nobilitata). Così come consente una spiegazione sociale della solo apparente contraddizione nella citazione di Trotzky con cui abbiamo aperto questa nota. Trotzky stesso non risolverà tale contraddizione. Trotzky «sovietico» ed i suoi seguaci pagheranno a caro prezzo il non essere riusciti a ricondurre il «progresso tecnico» russo alle proprie radici sociali cadendo nel più profondo disorientamento, un vero e proprio crollo nelle fila dell'opposizione, dovendo constatare come un successivo «progresso tecnico», come una successiva «industrializzazione», quella stalinista che essi stessi avevano propugnato, inspiegabilmente non spezzasse mai alcuna «catena», anzi.
Abbiamo tempo, avremo modo, di affrontare storicamente l'industrializzazione sovietica. La fretta è cattiva consigliera. Altri aspetti della dispotica Russia zarista devono essere ancora affrontati.
Per il momento non resta che ribadire che chiunque si ritenga comunista non può non comprendere almeno l'importanza, se non la necessità, di un lavoro che rintracci nella Russia zarista, le radici, il passato della Russia sovietica. Nel migliore dei casi, limitarsi ad una storia, per altro, per altre cose utilissima, essenzialmente basata su come i rivoluzionari russi hanno concepito e vissuto la sconfitta internazionale, sulle loro politiche, significa anche abbandonare il terreno del materialismo storico, abbandonare con la comprensione del passato anche la lotta per il presente.


Di Caro Carlo, Ottobre 2005, rivisto sintatticamente, 2017

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